Erodoto - Tucidide
ERODOTO: IL DISCORSO TRIPOLITIKOS
TUCIDIDE: IL DISCORSO DI PERICLE – IL DISCORSO DEGLI ATENIESI E DEI MELI
NOTAZIONI BIOGRAFICHE
Erodoto è nato il 484 a. C. ad Alicarnasso, colonia dorica sulla costa dell' Asia Minore, la famiglia aristocratica era di origine caria; la città era governata dal tiranno Ligdami, Erodoto avendo partecipato al tentativo di rovesciare il tiranno, fu costretto ad andare in esilio a Samo, dove rimase alcuni anni. Ritornato a Alicarnasso, partecipò alla caduta di Ligdami, presumibilmente nel 454; successivamente lasciò la città, desideroso di conoscere paesi stranieri, viaggiò per lungo tempo in Egitto, Mesopotamia, nella Fenicia, nella Scizia, nella Magna Grecia; ritornò più volte a Atene; conobbe Pericle con il quale ebbe rapporti di amicizia, ebbe rapporti con Sofocle, che gli dedicò un’ elegia, con Anassagora e con Protagora. Quando Pericle decise di fondare la colonia di Turi nel 444/443, Erodoto, con altri intellettuali, presumibilmente, collaborò alla fondazione della città; la data della sua morte non è nota, forse morì nel 425, quando era in corso la guerra del Pelopponeso.
Sappiamo che Erodoto tenne ad Atene pubbliche letture della sua opera;
per quanto attiene i suoi viaggi, abbiamo notizie certe circa i seguenti:
- si è recato nelle terre del Mar Nero e intraprese una spedizione nella terra degli Sciti; in questo viaggio si recò pure nella Tracia e in Macedonia;
- ha soggiornato per quattro mesi in Egitto; ha visto le piramidi e Menfi; ha risalito il Nilo sino a Elefantina e alla prima cateratta del fiume;
- dopo il soggiorno in Egitto, si è recato a Tiro sull' Eufrate e a Babilonia;
- ha viaggiato in quasi tutta l' area delle colonie greche;
- infine, ha soggiornato a Atene dove strinse amicizia con Sofocle che ha fatto riferimento, in molteplici punti delle tragedie all' opera di Erodoto; la citazione più nota si trova nell' Antigone (III 119); conobbe Pericle e fece parte della cerchia periclea.(1)
STRUTTURA DELL' OPERA
La sua opera è rimasta per intero; la suddivisione in nove libri chiamati con i nomi delle nove Muse, è stata eseguita, certamente, dal filologo alessandrino Aristarco di Samotracia (217-145 a.C.) che ha composto anche un commento non pervenuto; è sconosciuta la data di ultimazione, dello scritto, ma si presume che sia stato concluso qando iniziò la guerra del Peloponneso nel 430/429.
La visione storica di Erodoto si basa sul convincimento che i fatti non dipendono esclusivamente da un intervento divino, ma dalle azioni umane: sono gli uomini che creano la storia, la libertà degli uomini si snoda parallela alla volontà divina. Erodoto non esclude il divino, che è inteso come una "potenza cosmica,” ma ciò non implica un’intrusione degli dei nel processo storico che si sviluppa su due piani nettamente separati: quello umano e quello divino; gli uomini, ignorano i disegni divini, e sono pienamente liberi e responsabili delle loro decisioni. Inoltre, Erodoto introduce un nuovo elemento nel racconto storico: la causalità: il principio di causa si basa sul presupposto che sussista un connessione razionale tra gli eventi; lo storico, pertanto, a differenza dell' aedo, cerca di cogliere il senso degli eventi e di narrare ciò che è realmente accaduto, inoltre vi è uno stretto legame tra le vicende narrate: i fatti antichi contengono le premesse degli eventi posteriori. La storia degli uomini, posti al centro del processo storico, si riferisce non solo agli eventi militari e a quelli politici, ma comprende anche gli usi, i costumi, le credenze religiose di ogni popolo che, Erodoto, generalmente, narra in modo obiettivo. Infine, Erodoto considera la storia come un evento universale, per quanto attiene sia la dimensione cronologica che l’estensione geografica, pertanto può essere considerato un precursore dell’ odierno concetto di storia intesa in senso universale.
Erodoto delinea un discorso storiografico che si riferisce ai luoghi che aveva visitato : Egitto, Mesopotamia, Fenicia, Scizia, Magna Grecia e si configura come "storia della libertà greca" con particolare riferimento ad Atene.
Erodoto inizia la sua opera con un Proemio: ”Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, perchè gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose compiute sia dai Greci sia dai barbari, non restino senza fama, in particolare per quale causa essi si fecero guerra”.
Il Proemio ha lo scopo di chiarire quale sia l' oggetto dell' opera e lo scopo per cui è stata scritta; il termine "ricerca" chiarisce il metodo usato da Erodoto per comporre la sua opera: egli, infatti, basa la sua narrazione su ciò che ha effettivamente visto, o sulle informazioni ricevute dai testimoni dei fatti narrati; infine nel proemio Erodoto indica quale sia lo scopo per cui scrive la storia: spiegare le ragioni del conflitto tra i Greci ed i barbari.
Occorre, inoltre, evidenziare che Erodoto si distacca dal racconto mitologico e narra, esclusivamente, "la storia degli uomini”; l'opera, quindi, comprende sia elementi di carattere geografico ed etnografico che gli eventi politici e quelli militari e presenta la diversità dei costumi, quali espressioni della cultura di ogni popolo. Egli narra, in modo dettagliato i metodi di coltivazione, le risorse economiche, le opere architettoniche, i diversi costumi relativi al rapporto tra l' uomo e la donna e alle sepolture e descrive, infine, abitudini stravaganti e scene macabre quale la vendetta della regina Tomiri e le usanze dei Massageti (2) "Ognuno sposa una donna, però ne usano in comune... se un uomo massageta ha voglia di una donna, appende la sua faretra davanti al suo carro e le si unisce serenamente. L' unico termine della vita che conoscono è questo: quando uno è diventanto molto vecchio, i parenti si riuniscono e lo sacrificano con del bestiame, lo fan bollire e se ne mangiano le carni, questo lo considerano il colmo della felicità, mentre se uno muore di malattia non lo mangiano, ma lo nascondono sottoterra, considerando una disgrazia il fatto che non sia giunto ad essere sacrificato. Non seminano, ma vivono dell'allevamento e della pesca, bevono latte. Degli dei venerano solo il cielo, cui offrono in sacrificio cavalli “(3)(4).
La regina Tomiri, dopo aver vinto la battaglia contro Ciro, fa raccogliere il sangue sparso dai nemici e ne riempie un otre, quindi cerca il corpo di Ciro, morto durante lo scontro e, quando l’ ha trovato, lo “ficca” nell’ otre e lo insulta, esclamando:”Io sono viva e ti ho vinto in battaglia, mentre tu,che hai preso mio figlio con l’ inganno, sei morto; ora come ti ho minacciato, ti sazierò di sangue”
Erodoto può essere considerato il primo storico della cultura occidentale: egli abbandona ogni forma cronachistica e localistica, racconta, innanzi tutto, ciò che ha visto e tiene conto di quanto è venuto a conoscenza; infatti afferma che riferisce quello che si dice "ma non è per nulla tenuto a crederci e questa dichiarazione valga per tutta l' opera;”(5) pertanto può essere considerato un antesignano del moderno concetto di storiografia che considera il discorso storico simile ad un discorso scientifico.
Oggetto centrale delle "Storie" è lo scontro tra Grecia e Persia, ma Erodoto parla anche di tutti quei popoli che ha conosciuto durante i suoi viaggi e che, per diversi motivi, sono venuti in contatto con la Grecia o con la Persia; analizza non sono la politica e gli scontri militari, ma anche l' economia, i costumi, le consuetudini, i culti e le costruzioni monumentali; la sua visione storica è universale e bbraccia quasi tutto il mondo allora conosciuto. Egli è dunque il creatore di una visione "integrata" della storia, visione che sarà ripresa solo in tempi moderni dalla scuola degli Annales francesi.
Erodoto non ha mai un atteggiamento critico verso le diverse civiltà ed ha un profondo rispetto per tutti i costumi, infatti "se si sottoponesse ad ogni uomo la scelta fra tutte le usanze per stabilire quelle migliori, ognuno, dopo averle esaminate, sceglierebbe le proprie, perchè ognuno è ben convinto che le proprie usanze sono le più belle(6) ".
CONTENUTO DELL’ OPERA
La narrazione ha inizio con gli eventi relativi ai predecessori di Creso e con il regno di Creso che viene sconfitto da parte del sovrano persiano Ciro il Grande; la storia prosegue con le vicende dei Persiani che sconfissero i Medi, la sottomissione delle colonie greche la conquista di Babilonia e la morte di Ciro che venne ucciso durante la spedizione contro i Massageti. Il secondo libro prosegue con la narrazione delle vicende relative al regno di Cambise e i suoi preparativi per conquistare l’ Egitto, la trattazione della religione egiziana, degli usi degli abitanti dell’ Egitto, la storira dell’ Egitto dalle origine fino al faraone Amasi avversario di Cambise. Il terzo libro inizia con la conquista dell’ Egitto da parte di Cambise, la contemporanea spedizione degli Spartani contro Samo, segue la morte di Cambise, la successione al trono da parte di Smerdi, la congiura contro di lui di sette nobili persiani che lo uccidono, il dibattito sulle tre forme di governo (tripolitikos), l’ ascesa al trono di Dario I che conquista Samo. Nel IV libro Erodoto narra la spedizione di Dario contro gli Sciti e tratta a lungo della Scizia sia per gli aspetti geografici che per i costumi degli abitanti; quindi descrive la spedizione di Dario in Libia. Nel V libro è narrata la conquista della Tracia da parte dei Persiani e l’insurrezione ionica; il VI libro inizia con la narrazione della guerra degli Ioni contro Dario e la spedizione di Dario contro la Grecia (in particolare contro Atene che aveva sostenuto Mileto); il culmine narrativo è la battaglia di Maratona. Il VII libro inizia con la morte di Dario, l’ ascesa al trono di Serse e la spedizione di Serse contro la Grecia, il libro si chiude con la battaglia delle Termopili. Nell’ ottavo libro prosegue la narrazione della guerra, la devastazione di Atene, la battaglia di Salamina; infine l’ ultimo libro è dedicato alla battaglia di Platea e agli avvenimenti successivi alla guerra.
LE RIFLESSIONI SULLA LIBERTA' E SUL DESTINO
Attraverso il dialogo tra Serse e Demarato, Erodoto delinea la differenza principale tra Greci e Persiani: contrariamente ai Persiani, i Greci sono liberi e sono soggetti solo alla legge. Il problema della libertà è affrontato nel discorso tra Serse e Demarato, un re spartano in esilio in Persia, che accompagna la spedizione persiana contro i Greci.
Serse, dopo aver preparato la spedizione contro l' Ellade e aver passato in rassegna l'esercito, ha un discorso con Demarato; chiede a Demarato se gli Elleni oseranno combattere contro di lui; a suo parere, anche se tutti gli Elleni e tutti coloro che abitano in Occidente si alleassero non sarebbero in grado di combattere e resistere al suo assalto; inoltre vuole sapere che cosa pensa Demarato di costoro e gli chiede di dire la verità.
Demarato risponde: "Re, tu mi ordini di dire assolutamente la verità in modo che successivamente non si possa trovar che ho mentito: ebbene l' Ellade è sempre cresciuta con la povertà, ma si è acquistata il valore ottenendolo con la saggezza e salde leggi; con quello l' Ellade si difende dalla povertà e dalla tirannia. Io lodo tutti gli Elleni che abitano intorno alle terre doriche, ma dirò ora alcune cose che non li riguardano tutti bensì solo i Lacedemoni. Innanzi tutto non c' è verso che questi accolgano le tue richieste di schiavitù per l' Ellade, essi ti si opporranno in battaglia e anche se tutti gli altri Elleni si porranno dalla tua parte. Non domandarmi in che numero saranno per essere capaci di farlo; essi combatteranno contro di te sia che si trovino schierati in mille, sia in meno o in più"
Serse risponde, ironicamente, a Demarato che il suo discorso era assurdo, poichè nessun esercito sarebbe in grado di combattere all' assalto dell' esercito persiano infinitamente più numeroso.
Demarato risponde: "Sapevo fin da principio, re, che con la verità non ti avrei detto cose gradite; ma se tu mi hai costretto a dire ciò che c'è di più vero e io ti ho riferito quanto riguarda gli Spartani. Benchè tu stesso sappia assai bene come io li ami al presente, dopo che mi han privato della carica e dei privilegi dei miei antenati e mi han privato della patria ed esiliato, mentre tuo padre mi ha accolto e dato di che vivere e una casa. Non è dunque logico che un uomo assennato respinga la benevolenza dimostratagli, bensì che l' abbia assai cara. Io non assicuro che sarei capace di combattere con dieci uomini nè con due, e di mia volontà non combatterei neanche con uno solo; ma se vi fosse una necessità o una grande lotta mi vi spingesse, affronterei volentieri più che tutti uno di costoro che affermano di valere ognuno tre Elleni. Così i Lacedemoni quando lottano uno per uno non sono inferiori ad alcuno, uniti poi sono superiori a tutti. Essi son sì liberi, ma non in tutto poichè hanno come padrone la legge che essi temono molto più che i tuoi non temano te. Ed essi fan ciò che essa ordina, e ciò è sempre uguale: non si deve fuggire dalla battaglia di fronte a qualsiasi numero di nemici, ma bisogna resistere al proprio posto e vincere o morire. Se pare a te che con ciò faccia delle chiacchere voglio d' ora innanzi tacere; ma ora ho parlato perchè obbligato. Del resto avvenga secondo le tue intenzioni, re.”(7).
Non esistono documenti relativi alla storicità di questo dialogo, ma possiamo considerare che Erodoto ne sia venuto a conoscenza e che l' bbia narrato per sottolineare che i Greci sono uomini liberi e non sottoposti ad alcuna tirannide. La conversazione affronta un tema fondamentale del processo storico: il problema del confronto tra libertà e dispotismo: Erodoto, per primo introduce nella riflessione storica il tema della libertà che è stato oggetto d' indagine da molteplici storici e da numerosi pensatori; la libertà è intesa da Erodoto come un principio fondamentale, proprio dell' essere umano. La libertà può essere intesa in due sensi: come libertà di scelta, o come conformità alla legge; Erodoto intende la libertà nel secondo senso: l' uomo è libero in quanto opera in conformità della legge: la libertà, "ha una valenza collettiva", i Greci sono liberi poichè osservano le leggi dello Stato. Tuttavia, l’ uomo non può sottrarsi al destino: quando Creso chiede a Solone se può essere considerato un uomo felice, Solone gli risponde che l’ uomo è “come lo vuole la sorte”, certamente Creso è degno di essere chiamato felice, ma “prima della sua morte” può essere chiamato fortunato, ma non felice, poichè nessuno può possedere tutto: “un’ unica persona non può essere completa: avrà una cosa e mancherà di un’altra” la sorte può, improvvisamente, mutare “a molti infatti la divinità ha messo sotto gli occhi la felicità e poi li ha abbattuti completamente,”(8) in effetti Creso sarà vinto da Ciro e perderà tutto il suo regno e le sue ricchezze. Nel colloquio fra un Persiano ed uno di Orcomeno è ribadito che l’ uomo non può sottrarsi al suo destino: “Straniero, è impossibile per l’ uomo allontanare quanto deve succedere per opera della divinità”(9) All’ uomo è nascosto il suo destino, ma seguendo la ragione, è libero di scegliere ed è responsabile delle sue decisioni.
IL DISCORSO DI OTANE, MEGABIZO E DARIO
Erodoto lascia un'altra testimonianza fondamentale circa il pensiero politico a lui contemporaneo: riporta tre discorsi relativi al quesito "quale è la miglior forma di governo?", riferendo le parole pronunciate alla corte persiana dal Gran Re Dario, da Otane e Megabizo.
Otane sostiene: "io credo che non debba più esserci uno solo a comandarci perchè non è una cosa piacevole nè ben fatta. Avete ben visto a quale punto è giunta la violenza di Cambise...... Come può essere ben congegnata la monarchia, se non può fare quel che vuole senza renderne conto? Anche il migliore degli uomini, trovandosi con tale potere, verrebbe allontanato dai normali sentimenti. I beni di cui dispone gli fanno nascere infatti la violenza, e come uomo egli ha innata l' invidia; avere questi due difetti vuol dire essere completamente malvagio; molte scelleratezze le farà perchè è gonfio di violenza, altre per invidia. E' vero, un tiranno non dovrebbe essere invidioso, avendo ogni bene: e invece egli, verso i cittadini, fa proprio il contrario, perchè ha invidia dei migliori che sono ancora in vita, mentre gode dei peggiori fra i cittadini, ed è prontissimo ad accogliere le calunnie. La cosa più fuor di luogo e che se uno lo ammira moderatamente si sdegna perchè non lo rispetta abbastanza, se invece uno lo onora molto si sdegna perchè lo adula. Ma vi dirò la cosa più grave: egli sconvolge le leggi patrie, viola le donne, manda a morte senza giudicare. Il governo del popolo, invece, ha prima di tutto un nome bellissimo: uguaglianza; in secondo luogo non vi succede nulla di quanto fa il monarca: le cariche si ottengono per sorteggio, chi è in carica deve renderne conto, tutte le deliberazioni sono prese in comune. Esprimo dunque il parere di lasciar perdere la monarchia e di dar risalto al popolo, poichè nella moltitudine risiede ogni cosa".
Megabizo, invece, propone di orientarsi verso l' oligarchia: "Quello che ha detto Ottane per far cessare la monarchia è valido anche per me; egli invece s'è allontanato dall' idea migliore col consigliare di dare il potere al popolo: non c'è nulla di più stolto e violento di una moltitudine inetta, e non è assolutamente sopportabile che per fuggire dalla violenza di un tiranno, caschiamo sotto quella del popolo sfrenato. Il primo, infatti, se attua qualcosa sa quel che fa; mentre il secondo neppur lo sa: e come potrebbe avere questa cognizione se non ha ricevuto alcuna istruzione nè ha familiarità con alcuna cosa ben fatta, ma si spinge e precipita nelle situazioni senza riflettere, come un fiume in piena? Si rivolgano quindi al popolo coloro che vogliono male ai Persiani: noi invece scegliamo un consenso di ottime persone e affidiamo loro il potere; saremo anche noi fra loro e naturalmente dagli uomini migliori sorgeranno le deliberazioni migliori"
Infine, manifesta la sua opinione Dario: " Mi pare che quanto ha detto Megabixo a proposito del popolo sia giusto, mentre è sbagliato il suo parere sull' oligarchia. Ci si presentano tre possibilità, si suppongano tutte migliori nel loro genere: un' ottima democrazia, un' ottima oligarchia, un' ottima monarchia: io dico che quest' ultima prevale sulle altre. Non può esserci nulla che sia migliore di un unico uomo ottimo: se è tale governerà in modo irreprensibile il popolo, e le deliberazioni prese contro i malvagi saran tenute nel massimo segreto. Nell'oligarchia molti esercitano in comune la virtù e ne soglion nascere forte inimicizie private: ognuno infatti vuol essere il primo a far prevalere il suo parere, e così si giunge a gravi mutue discordie: di qui sorgono rivolte, da queste, stragi, e da queste si arriva alla monarchia che con ciò dimostra quanto sia migliore. Se invece comanda il popolo è impossibile non vi siano delle malefatte; quando queste ci sono non ne derivano inimicizie pubbliche tra i malvagi, ma forti amicizie, perche quelli che si comportano male verso la comunità cospirano insieme. Continua così finchè qualcuno, a capo del popolo, li fa smettere, e per questa ragione egli viene dal popolo ammirato tanto che risulta diventato un monarca: così anche lui viene a dimostrare che la monarchia è superiore. Per dir tutto in una parola: da chi ci è giunta la libertà, chi ce l' ha data? Dal popolo,dall' oligarchia o da un re? Dunque io giudico, che essendo stati liberati da un sol uomo,(Ciro, grazie al quale i Persiani si erano sottratti alla schiavitù dei Medi) ci atteniamo a tale istituzione, senza allontanarcene nel violare le buone istituzioni patrie, che sarebbe peggio”(10).
Erodoto narra un dibattito, svoltosi alla corte persiana nel 522 a.C., sulla miglior forma di governo: i tre interlocutori esaminano tre tipi di regime: Otane, memore del recente governo di Cambise, ritiene che, quando chi governa è sottratto ad ogni controllo, degenera e compie atti malvagi, critica la tirannide e presenta come migliore il governo democratico; Megabizo sostiene che è preferibile il governo affidato a poche "ottime persone," infine, Dario considera la monarchia come sistema ottimale e conclude sottolineando che Ciro ha dimostrato che il governo affidato a un solo uomo è il migliore.
Sono state elaborate molteplici questioni circa la storicità del dibattito descritto da Erodoto; occorre considerare che, tale dibattito, affronta teorie discusse tra la fine del VI secolo e l' inizio del V secolo dai poeti Teognide, Pindaro, e successivamente dai sofisti, come risulta dai frammenti delle loro opere e verrà affrontato anche da Platone, che è contrario sia al governo democratico, che a quello tirannico, sostenendo quindi un particolare forma di governo affidato ai filosofi. E' stato sollevato anche il problema relativo alla posizione di Erodoto tra i tre regimi, dal dibattito non emerge una conclusione condivisa, rimane al lettore decidere quale sia la soluzione più convincente.
TUCIDIDE:NOTAZIONI BIOGRAFICHE
Tucidide nacque ad Atene, presumibilmente, nel 454 a. C.; il padre Oloro aveva vasti possedimenti in Tracia e l' appalto delle miniere d' oro del Pangeo, ed aveva grande autorità tra le famiglie dell'alta aristocrazia ateniese e aveva legami con le famiglie di Milziade e di Cimone. Nel 424, Tucidide ricoprì la carica di stratega per la difesa di Anfipoli, ma non riuscì a difendere la città dagli attacchi dello spartano Brasida, dopo tale insuccesso, venne esiliato da Atene, forse per vent' anni, ma è difficile stabilire dove visse durante l' esilio; sappiamo che in questo periodo, Tucidide si dedicò alle ricerche storiografiche e che potè rientrare ad Atene grazie ad un decreto proposto dal politico Enobio, secondo altre fonti grazie all' amnistia generale a favore degli esuli. Nel V libro delle "Storie", Tucidide afferma che si è allontanato dalla sua città "Per ventì anni dopo la campagna della guerra civile" e che è stato soprattutto nel Pelopponeso a causa dell' esilio(11)”.
Certamente Tucidide ha visto la conclusione del conflitto, nella sua opera spiega che le cause di tale disastro sono da ricercarsi nel grande numero di errori commessi da coloro che governavano che non avevano tenuto conto delle indicazioni di Pericle che "per tutto il tempo che fu a capo della città in periodo di pace, governò sempre con moderazione................e quando scoppiò la guerra seppe calcolarne preventivamente la portata". Fu dopo la sua morte che le previsioni da lui formulate si avverarono, poichè gli Ateniesi non tennero conto dei suoi consigli; rimanere tranquilli, provvedere alla flotta, non accrescere i loro domini per tutta la durata della guerra e non far correre rischi alla città”(12)
Tucidide è vissuto sino alla conclusione della guerra del Pelopponeso iniziata nel 431 a.C. e terminata nel 404 a:C. Con la vittoria di Sparta; Tucidide è morto qualche anno dopo la conclusione del conflitto, probabilmente, nel 399/395; le testimonianze antiche affermano che morì ad Atene, attualmente sono state fatte altre ipotesi e si ritiene che sia morto in Italia o in Tracia; è certo che la sua tomba era indicata fra quelle che ad Atene appartenevano alla famiglia di Cimone.
La vita di Tucidide si snoda all' incirca, durante la seconda metà del V secolo; sul piano politico visse nel periodo della "democrazia radicale ateniese”(13), degli scontri tra Atene e Sparta, del governo di Pericle che, secondo alcuni storici "è la figura che caratterizza e simboleggia in maniera autentica tutto il mondo antico e uno stadio di portata universale dello sviluppo dell' umanità”(14).
I DISCORSI
Nell’ opera di Tucidide si trovano circa 40 discorsi, nel riferirli egli si mantiene a due principi: far dire alle persona “quanto è necessario” a quella situazione e mantenersi “il più possibile aderente al contenuto generale”(15). Mentre il primo principio può dar luogo ad un discorso frutto, in larga misura, dell’invenzione dello storico, il secondo è senz’ altro accettabile; ma è molto difficile stabilire quando prevalga l’uno o l’altro principio. Certamente i discorsi non sono stati pronunciati così come Tucidide li riferisce, ma comunque “sono storia perchè nell’ opera di Tucidide assolvono ad una importante funzione storica. In forma acconcia e succinta essi vanno a caratterizzare uomini e avvenimenti. La grande orazione funebre di Pericle è forse la migliore e più suggestiva descrizione della vita e della cultura dell’ Atene del V secolo. Nello stile di questi discorsi l’ impronta personale di Tucidide è ben riconoscibile.........nondimeno essi non esprimono solo idiosincrasie personali essi sono lo specchio di un’ epoca presa nel suo insieme.”(16)
Due sono i discorsi più noti: “l’ epitaffio di Pericle” ” e “Il Dialogo tra gli Ateniesi e i Meli”. Secondo alcuni storici Pericle "è la figura che caratterizza e simboleggia in maniera autentica tutto il mondo antico” il Dialogo “è uno stadio di portata universale dello sviluppo dell' umanità”(17).
Tucidide nutrì sempre una profonda ammirazione per Pericle, come si può evincere dal famoso "Epitaffio di Pericle" pronunziato dallo statista in occasione delle solenni onoranze funebri, per onorare i caduti del primo anno di guerra; il discorso non mira a elogiare i caduti, ma delinea le ragioni per cui Atene emerge, rispetto alle altre polis, per la grandezza materiale e spirituale: ha attenuato il contrasto tra il popolo e l' aristocrazia, ha stabilito il principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge e ha attuato la capacità di combattere eroicamente, principi che costituiscono le fondamenta della democrazia. Il discorso costituisce un' esaltazione della libertà e di una politica basata sulla ricerca dell' accordo e sul dialogo e si conclude con l' esaltazione della democrazia ateniese e la glorificazione dei caduti.
Epitaffio di Pericle, II,41 – 42
"In sintesi, affermo che la nostra città nel suo insieme costituisce un ammaestramento per la Grecia,e, al tempo stesso, che da noi ogni singolo cittadino può, a mio modo di vedere, sviluppare autonomamente la sua personalità nei più diversi campi con grande garbo e sbigliatezza. E che queste siano non pompose parole di circostanza ma verità di fatto, lo prova proprio la potenza della città, che abbiamo raggiunto grazie a queste qualità. Oggi infatti essa è l' unico Stato che ad ogni verifica risulti superiore nella sua fama, l' unico che non susciti nel nemico che l' abbia attaccata un amaro risentimento nel considerare quale sia la causa delle proprie angustie, nè scateni il malcontento dei sudditi che si vedono dominati da signori indegni. Grandi sono i segni della sua potenza,non certo priva di attestazioni, che noi abbiamo affidato all' ammirazione dei contemporanei e di quelli che verranno, e non abbiamo bisogno di alcun Omero che canti la nostra gloria nè di chi con le sue parole procurerà un diletto immediato, dando però un'interpretazione dei fatti che non potrà reggere quando la verità si affermerà; con la nostra audacia abbiamo costretto il mare e la terra interi ad aprirci le loro vie, e ovunque abbiamo innalzato alle nostre imprese, siano state esse sfortunate o coronate da successo, monumenti che non periranno. Ed è per una tale città che questi uomini hanno affrontato nobilmente la morte in combattimento, ritenendo che non fosse giusto perderla, ed è naturale che ognuno di quelli che restano volentieri per essa affronterà ogni travaglio.
Questo è il motivo per cui così a lungo ho parlato della nostra città; volevo infatti farvi capire, adducendo anche delle prove per dare solide basi al mio elogio di coloro in onore dei quali oggi ho preso la parola, che le ragioni delle nostre lotte non sono le stesse che possono animare quelli che non hanno nulla di tutto ciò. Ma di quest' elogio il più è stato ormai detto, poichè la gloria della città a cui ho sciolto un inno e rifulge proprio grazie agli alti servigi che questi uomini e altri come loro le hanno reso, e non per molti Greci si potrebbe cogliere, come nel loro caso, un perfetto equilibrio tra fatti e parole.Il valore di questi uomini è provato, a mio avviso, dalla morte che ora essi hanno incontrato; essa è stata per gli uni la prima rivelazione, per gli altri l' ultima conferma. E, pure se alcuni non avevano dato per il resto buona prova di sè, è giusto anteporre a tutto la nobiltà d' animo da loro mostrata in guerra in difesa della patria, poichè essi hanno cancellato il male col bene, procurando allo Stato un vantaggio maggiore del danno derivante dalle mancanze commesse in ambito privato. Nessuno di loro si è mai comportato da vile preferendo godersi in pace le proprie ricchezze, nè ha arretrato dinanzi al rischio per la speranza, che si nutre quando si è poveri ,di poter ancora sfuggire a tale condizione di povertà e diventare ricchi. Prendersi la vendetta sul nemico è stato per loro un desiderio più forte delle ricchezze, e questo essi l’ hanno considerato al tempo stesso il rischio più esaltante da affrontare, e con esso hanno voluto da un lato prendersi la vendetta, dall’ altro esaudire le loro aspirazioni affidando alla speranza l’ incertezza del successo futuro, ma nell’ azione concreta per l’ immediato ritenendo giusto confidare solo in se stessi. E, proprio nel vendicarsi sul nemico, preferendo affrontare il sacrificio estremo piuttosto che salvarsi grazie a un cedimento, hanno evitato una fama vergognosa: hanno fatto fronte all’ impresa offrendo il proprio corpo.E nel momento brevissimo in cui si è compiuto il loro destino ed essi hanno lasciato la vita, non il timore ha toccato il culmine, ma la loro gloria”(18)
Commento:
Probabilmente Pericle ha pronunziato un discorso in onore dei caduti del primo anno di guerra, ma il “tono” dell’ epitaffio volto ad esaltare la città di Atene quale “viva scuola della Grecia” per la sua organizzazione politica, per l’ intelligente politica estera e l’ organizzazione interna che è stata creata, è opera di Tucidide che presenta un modello di stato fondato sull’ armonizzazione dei contrasti e sulla moderazione, secondo un piano che colui che guida lo Stato ha elaborato; il discorso mira a persuadere gli Ateniesi che il governo ha avuto, come finalità, di promuovere la coesione di tutti i cittadini e esaltare l’ egemonia della città rispetto alle altre città greche. Si avverte, nella costruzione retorica, l’ influenza dei sofisti, che Tucidide ha frequentato: il discorso di Pericle è strutturato con frasi ad effetto, con attenta argomentazione logica, risultando rispondente ai criteri della retorica sofistica di persuasione, anche tramite il coinvolgimento emotivo del pubblico (la parola per Gorgia è “magica”), secondo i quali non importa il contenuto di verità del linguaggio, ciò che importa è che esso sia persuasivo, perché l’arte della parola è il saper trascinare e convincere l’uditorio.
Un altro discorso significativo è “Il dialogo dei Meli e degli Ateniesi”: la piccola isola di Melo,, che si trova nell’ Egeo meridionale, ha mantenuto la neutralità nel corso della guerra tra Sparta e Atene; ma nel 416 Atene impone all’isola di assoggettarsi e di pagare un tributo, minacciando che, in caso contrario, tutti gli uomini sarebbero stati uccisi, le donne e i bambini venduti e il territori confiscato. Tucidide narra l’incontro fra gli ambasciatori ateniesi e i rappresentanti di Melo, riportando le posizioni assunte da entrambe le parti. Gli Ateniesi sostengono che, secondo la legge di natura, la “forza” prevale su chi è debole che deve obbedire ai comandi di chi è potente: “Quanto al favore degli dei, neanche noi saremo da meno, ne siamo persuasi: Giacchè quello che facciamo, quello che pretendiamo, non si pone affatto fuori dalla concezione che gli uomini hanno del mondo divino nè della reciproca loro disposizione. Non solo tra gli uomini, come è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un necessario e naturale impulso spinge a dominare su colui che puoi sopraffare. Questa legge non l’abbiamo stabilita noi nè siamo stati noi i primia valercene; l’abbiamo ricevuta che già c’era a nostra volta la consegneremo a ch verrà dopo, ed avrà valore eterno. E sappiamo bene che chiunque altro, ed anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pari alla nostra, vi comportereste così. Ecco perchè per quel che riguarda il divino, abbiamo motivo di ritenere che non verrà meno neanche a noi.
I Meli conclusa la riunione si riunirono per loro conto e, decidendo di rimanere neutrali, risposero così: “Siamo rimasti dello stesso parere, Ateniesi. Non ce la sentiamo di liquidare in pochi istanti la libertà di una città che esiste ormai da settecento anni. Confidando nella buona sorte che promana dalla divinità, che finora ci ha salvati, e nell’aiuto degli uomini e in particolare degli Spartani, tenteremo di farcela. La nostra controproposta è di essere vostri amici ma nemici di nessuno dei due schieramenti. E vi chiediamo di ritirarvi nel nostro territorio stipulando un trattato di pace che appaia conveniente sia a voi che a noi.”(19)
Gli strateghi, poichè i Meli avevano respinto le proposte dei legati, posero, immediatamente assedio alla città; costruirono un muro per stringere d’ assedio i Meli e lasciarono nell’ isola un corpo di guardia con il compito di tenere l’isola sotto controllo da terra e da mare. I Meli si impossessarono, con un assalto notturno, di una parte del muro costruito dagli Ateniesi, uccisero alcuni uomini, presero con sè cibo e tutto ciò che poterono di utile e rientrarono. Gli Ateniesi migliorarono la sorveglianza. ma i Meli riuscirono a fare una nuova sortita e a impadronirsi del muro ateniese in un altro punto. Gli Ateniesi “inviarono un altro corpo di spedizione al comando di Filocrate figlio di Demea gli assediati ormai con tutte le forze e fino allo stremo, prodottosi anche nel loro interno un tradimento,si arresero agli Ateniesi a discrezione. Quelli uccisero quanti Meli in età militare poterono catturare, fecero schiavi le donne e i bambini. Il territorio lo abitarono loro inviando cinquecento coloni”(20).
Commento:
La discussione tra gli ambasciatori ateniesi e i rappresentanti di Melo per scongiurare il peggio, si sviluppa in modo drammatico ed affronta un tema fondamentale: come deve svilupparsi il rapporto tra gli Stati; la questione viene posta sul piano etico, tenendo conto, esclusivamente, della “realtà effettuale”: secondo Tucidide, come poi per Machiavelli, la politica non si basa sulla giustizia, ma sulla “forza”, è una legge di natura, quindi universale e immutabile; nemmeno gli dei possono mutarla e infrangerla, nè si può far affidamento alla fortuna che può abbattere i potenti.
E’ questione ampiamente dibattuto dagli studiosi quale sia la posizione assunta da Tucidide nel dialogo e, quindi, è controversa tutta l’interpretazione del dialogo stesso. Infatti, Tucidide approva o meno la posizione della sua polis? Il discorso degli ambasciatori ateniesi, costruito con maestria sofistica e vicina alle posizioni espresse proprio dal sofista Antifonte, rispecchiano le idee politiche di Tucidide?
Come spesso accade ai capolavori del mondo antico, la risposta non è sicura, in quanto, in realtà, l’autore nasconde la propria posizione e si limita a proporre quanto detto dagli ambasciatori di entrambi gli schieramenti. In fondo è la stessa ambiguità che ritroviamo nell’Antigone di Sofocle, dove non è definito se il giusto sia la posizione di Antigone, che difende il diritto di famiglia, o quella di Creonte, che difende il diritto dello Stato.
Di certo si può notare che Tucidide lascia spazio ai Meli e descrive la dura condanna degli abitanti dell’isola: ciò mostra rispetto per il “nemico” e una sorta di pietà per la sorte di tante vite spezzate. Inoltre, i Meli criticano l’aggressivo imperialismo ateniese, una linea politica che nella realtà storica ha indebolito Atene, compromettendo l’equilibrio della Lega Delio-Attica.
Tucidide ci offre un’acuta pagina di riflessione sul tema del rapporto tra etica e politica, una problematica non risolta neanche ai giorni nostri: probabilmente lo storico riconosce la Real Politik, fondata sulla legge del più forte, ma, nel contrapporre i Meli agli Ateniesi, suggerisce anche che la politica deve agire con equilibrio e moderazione, per evitare di creare una condizione di conflitto permanente che, nella lunga durata, così come fa sorgere grandi potenze, così le abbatte.
LA PESTE DI ATENE
Tucidide nel secondo libro, descrive l’epidemia di peste che colpì Atene nel 430 a.C., durante la guerra del Pelopponeso; la malattia provocò migliaia di morti; il testo ha un andamento, via via, sempre più drammatico: Tucidide illustra i sintomi presenti negli ammalati, il coraggio, la paura, la solidarietà, le ripercussioni del morbo sulla “pietas” per i defunti, il rispetto per gli dei e le consuetudini religiose, l’ osservanza delle leggi.
Sono molteplici le immagini della tragedia: i medici che muoiono perchè sono a contatto con gli infetti, i malati assetati che non trovano alcun regrigerio, i sopravissuti ridotti a spettri, intere famiglie sterminate, gli immigrati delle campagne morti in condizioni terribili, il venir meno del “compianto sui morenti”, le sepolture “indecenti,” gli uccelli rapaci che, per istinto, evitano i morti abbandonati per le strade. La narrazione di Tucidide pone in risalto tutti gli aspetti del male che è collocato nel più ampio evento della guerra che distrugge le vite e gli affetti. Il suo racconto della malattia, precede quelli, altrettanto famosi, del Boccaccio e del Manzoni.
Tucidide fornisce una descrizione molto nitida della malattia che, inizialmente, provoca un forte calore alla testa, “con arrossamenti e infiammazione agli occhi,” le parti interne gola e lingua diventano rosso sangue e emanano un fiato “irregolare e puzzolente. Successivamente sopraggiungeva “starnuto e raucedine” e, in breve tempo, la malattia “scendeva al petto con forte tosse;” se giungeva “alla bocca dello stomaco lo rivoltava e ne derivavano evacuazioni di bile, questo causava una sofferenza enorme. La maggior parte fu colta da conati di vomito a vuoto che causavano spasimi violenti...- Toccato esternamente il corpo non si presentava particolarmente caldo o giallastro, ma era solo un po’ arrossato, livido, cosparso di piccole pustole e ulcere; internamente però l’ arsura era così forte che non si sopportava d’ avere indosso i vestiti o i lenzuoli più leggeri, ma si riusciva a resistere solo restando nudi..........Vi era poi il tormento continuo dell’ impossibilità di trovare riposo e dell’ insonnia...i più morivano dopo otto ovvero sei giorni per l’ arsura interna; ...se superavano questa fase il morbo discendeva nella cavità addominale, dove sopravveniva una forte ulcerazione, cui si aggiungeva un’ emissione di diarea acquosa che debilitava l’ organismo, e questo stato di debolezza nella maggior parte dei casi portava successivamente alla morte.”
“La natura dell’ epidemia superò la possibilità della parola, e come, per tutto il resto, ognuno ne fu colpito con una violenza che la natura umana non può reggere, così, che si trattasse di un evento fuori del comune rispetto ai mali consueti, fu dimostrato da una circostanza particolare: gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di carne umana, anche se vi erano molti cadaver insepolti, non si accostavano a quei corpi o, se provavano a divorarli, poi moriva. Prova ne è che tali uccelli con tutta evidenza scomparvero: non li si vide più intenti a un tale pasto, anzi non li si vide più del tutto, erano i cani che, vivendo assieme agli uomini , offrivano meglio la possibilità di osservare le consenguenze del contagio...............Gli uni morivano nell’ abbandono. gli altri nonostante fossero loro prodigate tutte le cure. E non c’ era un rimedio, la cui applicazione garantisse un qualche giovamento .....nessun corpo forte o debole che fosse, si rivelava in grado di resistere, ma erano mietuti tutti indistintamente, quale che fosse il regime seguito per curarsi. Ma l’ aspetto più grave di questo male era da un lato lo scoraggiamento da cui era preso chi si accorgeva di esserne colpito, perchè subito ci si abbandonava alla disperazione, si che rapidamente lasciandosi andare non si opponeva più alcuna resistenza, dall’ altro che prestandosi l’ un l’ altro delle cure, si contagiavano e morivano come pecore. E fu questo soprattutto a provocare la moria, perchè se per timore, evitavano di avvicinarsi gli uni agli altri, morivano abbandonati – e molte case si svuotarono poichè non ci fu nessuno che prestasse le cure necessarie - ; ma se si accostavano ai malati, cadevano subito vittime del male,...persino i parenti alla fine, vinti dalla grandezza della sciagura, si stancavano dei gemiti dei morenti. Maggiore pietà dimostravano tuttavia verso i morenti e i malati coloro che si erano salvati dall’ epidemia, poichè essi conoascevanoi già quelle sofferenze, e per se stessi non avevano più nulla da temere”(21).
LA CONCEZIONE DELLA STORIA
Tucidide cosidera la ricerca del potere quale elemento fondamentale sia della vita del singolo individuo, sia della politica di uno Stato: la storia, quindi, è la narrazione della continua lotta per il potere che, secondo Tucidide, nasce da tre impulsi originari: l’ambizione, l’egoismo e la paura che costituisce l’ elemento principale: “L’ equilibrio determinato da una paura reciproca è la sola garanzia per un’ alleanza; chi infatti voglia infrangerla viene dissuaso dal muovere eventuali attacchi se rapporti di forza non sono in suo favore “(22) . Tucidide ha, sostanzialmente, una visione negativa dell’ umanità, simile a quella di Machiavelli che, nel Principe, evidenzia la crudeltà degli esseri umani: “Perchè degli uomini di può dire questo , generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitoti de’ pericoli, cupidi del guadgno e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti il sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli...quando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa si rivoltano, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina”(23).
Le vicende storiche dipendono dalle scelte che gli uomini compiono; in particolare da coloro che sono in grado di elaborare, razionalmente, un progetto politico di governo. Il destino non interferisce nell’ agire umano, solo il “caso,” e le passioni umane possono interferire con i progetti e distruggerli. Tucidide, pertanto, esclude qualsiasi intervento della divinità nella storia, pone a fondamento del processo storico i “meccanismi del potere”(24) e riconosce che, non sempre, i progetti elaborati da chi detiene il potere conseguano la finalità prevista: il caso, la natura umana caratterizzata dall’ istintualità e dalla passionalità, possono dare luogo all’ imprevedibile. Gli uomini creano la storia, lo storico, quindi, deve tener conto delle passioni, delle ambizioni che agitano l’ uomo e deve cercare di dare un’ interpretazione ai fatti e alle scelte che vengono compiute.
Il tema affrontato da Tucidide è concentrato sulla guerra tra Sparta e Atene (guerra del Pelopponeso): è preponderante la narrazione delle vicende politiche e militari; mentre gli aspetti economici, sociali, culturali e religiosi sono appena accennati e sono assenti i riferimenti di carattere geografico ed etnografico che,invece, Erodoto aveva ampiamente trattato.
Tucidide vede “come ultimo e fondamentale movente di tutte le azioni pubbliche, sia di un individuo che di un intero popolo, l’aspirazione al potere e considera di fatto tutti gli argomenti giuridici o morali chiamati in causa nel dibattito politico solo come un velo per mascherare quest’aspirazione”(25) Tale convincimento di Tcidide è evidente nel dialogo tra i Meli e gli Ateniesi: “Non solo tra gli uomini, come è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un necessario e naturale impulso spinge a dominare su colui che puoi sopraffare. Questa legge non l’ abbiamo stabilita noi nè siamo stati noi i primi a valercene; l’abbiamo ricevuta che già c’era a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo, ed avrà valore eterno. E sappiamo bene che chiunque altro, ed anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pari alla nostra, vi comportereste così”(26).
NOTAZIONI STORICHE
LA GUERRA TRA GLI ATENIESI E I PERSIANI
Ciro il Grande ed il figlio Cambise costruirono un impero di dimensioni molto vaste che si estendeva dalle coste occidentali dell’ Asia Minore al Caucaso, al confine con l’ India, all’ Egitto.
Dario I proseguì la politica di espansione dell’ impero: furono attuate delle spedizioni contro i Traci, i Geti e gli Sciti; dopo aver domato la rivolta ionica e distrutto la città di Mileto, nel 490, organizzò una spedizione contro la Grecia per punire Atene che aveva appoggiato l’ insurrezione ionica, ma questo era un pretesto, i Persiani miravano a imporre la loro supremazia su tutta la Grecia. I Persiani approdarono di fronte alla pianura di Maratona; i due eserciti si fronteggiarono per alcuni giorni, secondo Erodoto furono gli Ateniesi ad attaccare; deciso l’ attacco gli opliti ateniesi fece “di corsa l’ ultimo tratto della marcia di avvicinamento ,tentando di passare al di sotto del nugolo di frecce degli avversari. Mentre il centro dello schieramento soccombeva ai Persiani le ali respinsero il nemico e accerchiandolo, riportarono la vittoria.......La battaglia di Maratona fu un evento di grandissima importanza poichè vide la vittoria delle armi ateniesi e della tattica greca. La spinta morale fu enorme per i Greci”(27). La battaglia di Maratona è strettamente legata a Milziade che seppe condurre l’ esercito greco alla vittoria.
Nel 485 l’ imperatore Dario I morì, quando stava preparando una nuova spedizione contro la Grecia; il suo successore Serse decise di effettuare una spedizione di terra che doveva essere affiancata dalla flotta. Nel 480 le truppe varcarono l’ Ellesponto, nel frattempo le città greche si strinsero in una confederazione per poter resistere ai Persiani; il piano di guerra venne predisposto da Temistocle che stabilì lo scontro decisivo sul mare, mentre si sarebbe tenuto testa all’ avanzata persiana sulla terraferma e si scelse di far fronte al nemico al passo delle Termopoli. I Persiani, grazie all’aiuto di guide esperte, riuscirono a sopraffarre i Focesi e arrivarono alle spalle di Leonida; gli opliti, posti alla guardia del passo, combatterono fino all’ ultimo uomo. Ad Atene si decise di abbandonare la città, mentre la flotta si concentrò nello stretto di Salamina dove avvenne lo scontro decisivo tra le due flotte, scontro che si concluse con la vittoria dei Greci
LA GUERRA DEL PELOPONNESO (431.404 a.C .)
Tucidide sostiene che le cause più profonde della guerra sono da ricercarsi nell’ opposizione tra Ateniesi e Spartani per il dominio della Grecia; Pericle, secondo Tucidide, non cercò mai la guerra, ma non se ne sottrasse quando non restava altra scelta. Dopo inutili trattative, Sparta pretese la cacciata di Pericle da Atene e il ripristino dell’ autonomia degli Elleni; ma Pericle respinse decisamente le richieste e la sua proposta di un arbitrato venne respinta, per cui inesorabilmente iniziò la guerra.
La guerra ebbe inizio nella primavera del 431 con la penetrazione degli opliti tebani a Platea; i tebani vebbero sopraffatti; successivamente gli Spartani invasero l’ Attica; Pericle organizzò una efficace difesa e gli Spartani dovettero ripiegare; nel 430 si ebbe un’ altra invasione del territorio attico, ma nell’ estate del 430 una tremenda epidemia che aveva già provocato numerosi morti nell’ Asia Minore, si abbattè sulla città assediata e sulla flotta di Atene. Non è certa la natura del morbo che provocò la morte di circa un terzo della popolazione attica, Pericle stesso morì all’ inizio del 429; l’ attività bellica fu meno intensa a causa della guerra, i combattimenti ripresero a partire dal 428/429 e proseguì, a fasi alterne sino al 404.
BIBLIOGRAFIA
A.A.V.V., a cura di F.Montanari, Da Omero agli Alessandrini, La Nuova Italia scientifica, 1998;
Bengtson, Storia greca, Il Mulino, 1988;
Cassirer, Saggio sull' uomo, Armando Editore;
Erodoto, Storie, vol. I-II, Istituto geografico De Agostini, 1959;
Finley, Problemi e metodi di storia antica, Laterza, 1987;
Meister, La storiografia greca, Laterza, 1992;
Montanelli, Storia dei Greci, Rizzoli, 1959;
Robin, Storia del pensiero greco, Einaudi, 1951;
Tucidide, La guerra del Peloponneso, cura di L. Canfora, vol. I- II, Mondadori, 2007.
NOTE:
(1) Meister, La storiografia greca, Laterza, 1992, pp.23/24
(2) I Massageti erano un popolo nomade iranico, che viveva a sud del lago d' Aral; secondo alcuni studiosi mangiavano la carne dei defunti affinchè il morto rimanesse con loro.
(3) Erodoto. op. cit.,libro I, 216.
(4) Erodoto, op. cit. libro I, 214.
(5) Erodoto,op. Cit. Libro VII, 152.
(6) Erodoto, op. cit.III, 38.
(7) Erodoto, op. cit. libro VII,102-103-104
(8) Erodoto, op. cit. Libro primo, 30-31-32.
(9) Erodoto, op. cit. libro IX, 16
(10) Erodoto, op. cit.,libro III, 80-81-82.
(11) Tucidide, La guerra del Pelopponeso, Mondadori,2007,libro V, 26.
(12) Tucidide, op.cit. Libro II, 65
(13) Meister, Lastoriografia greca, Laterza, 1992,p.48.
(14) H. Bengtson, Storia greca, vol I, p.335
(15) Meister op. cit. pag. 47
(16) E. Cassirer, Saggio sull’ uomo, Armando Editore, pag. 139-140.
(17) H. Bengtson, Storia greca, vol I, p.335
(18) Tucidide, La guerra del Pelopponeso a cura di L. Canfor, Mondadori, 2007, II, 41,42
(19) Tucidide, op, cit. vol.II libro V
(20) Tucidide, op. cit. Libro V 87-116.
(21) Tucidide,op.cit.libro secondo, 4851.
(22) Tucidide, op. cit., libro terzo, 11,2.
(23) N. Machiavelli, Il Principe, Feltrinelli 2017, cap. XVII, p. 171-172
(24) Meister ,op .cit.,p.66
(25) Meister, op. cit. p. 64
(26) Tucidide, op. cit. V,105.
(27) H. Bengtson, Storia greca, vol. I, Il Mulino1988, p. 278-279.