Le radici della cultura occidentale: Le Lamine Orfiche
LE RADICI DELLA CULTURA OCCIDENTALE:
LE LAMINE ORFICHE
La lamine d’oro ritrovate nei sepolcri della Magna Grecia, di Creta e della Tessaglia, hanno un notevole rilievo nelle vicende storiche, religiose, letterarie della civiltà greca e di quella occidentale. Si tratta di lamine, che erano nei sepolcri degli iniziati, sulle quali sono scritte le istruzioni che dovevano guidare l’anima nel suo viaggio dopo la morte. Gli studiosi, in particolare Carratelli, hanno dimostrato il fondamento religioso orfico delle lamine, che si nota soprattutto in quelle rinvenute nei sepolcri della Magna Grecia: lamina di Hipponion (colonia greca sulle coste tirreniche della Calabria fondata attorno al VI sec. a.C.) e lamina di Petelia (colonia greca situata sulla costa ionica della Calabria nei pressi di Crotone), una terza lamina è stata ritrovata a Farsalo, in Tessaglia, infine altre sono state ritrovate ad Elentherna (Creta occidentale), (III secolo a. C.), molto simili alle due precedenti; ciò testimonia la diffusione delle religioni misteriche, oltre che in Grecia, anche nell’area della colonie.
Le lamine ritrovate a Petelia, a Hipponion, a Farsalo e a Thurii presentano uno schema compositivo comune: l’anima nell’aldilà deve compiere un viaggio alla ricerca di una spirituale rinascita; durante il viaggio l’anima dialoga con i custodi dell’oltretomba o con Persefone per essere ammessi con gli altri iniziati.
Procediamo all’analisi della prima serie di lamine.
La lamina di Hipponion, che risale alla fine del V secolo o agli inizi del IV a.C., è stata ritrovata in una tomba dove era stata sepolta una donna; la composizione inizia con un’invocazione a Mnemosine, la dea della memoria e madre delle Muse, e prosegue con il racconto del viaggio che l’anima compie nell’aldilà.
Dopo la morte, l’anima s’inabissa nell’Ade ed è angustiata da una terribile arsura (è opportuno ricordare che anche nel mito di Er, narrato da Platone nel X libro della Repubblica, le anime, dopo aver scelto il proprio destino, si dirigono verso la pianura di Lete camminando in una tremenda calura e afa; quando giungono presso il fiume Amelita, tutte devono bere l’acqua del fiume, “in una certa misura”, ma chi “non era frenato dall’intelligenza ne beveva più della misura, via via che uno beveva, si scordava di tutto.”)
L’anima non deve bere alla fonte posta accanto ad un “bianco cipresso,” ma deve proseguire il suo cammino sino a quando non sarà giunta presso il lago di Mnemosine; davanti al lago stanno i custodi, che chiedono all’anima che cosa cerca “nell’Ade caliginoso”: l’anima dovrà rispondere correttamente “sono figlio della Greve e del Cielo stellato” e chiedere la “fredda acqua che viene dal lago di Mnemosine”. Solo allora i custodi consentono all’anima di bere l’acqua del lago e l’anima dell’iniziato può percorrere la sacra via che gli altri iniziati hanno percorso.
Le lamine di Thurii e Pelium sono simili: anche esse contengono istruzioni che guidano l’anima nel suo viaggio oltremondano, irto di pericoli che occorre evitare per poter conseguire la salvezza.
Le lamine sono composte con un linguaggio simbolico e hanno uno schema compositivo comune: il viaggio, il dialogo dell’anima con i custodi dell’aldilà; gli studiosi hanno fornito diverse interpretazioni cercando di chiarirne il significato.
Nei testi si afferma che l’anima giunge alle case di Ade e scopre un “bianco cipresso”: Pugliese Carratelli interpreta il colore irreale dell’albero come segno dell’immagine negativa antitetica alla realtà umana. Altri studiosi hanno proposto di considerare il «cipresso bianco» come un “populus albi” poiché tale pianta era sacra agli dei degli inferi; inoltre, coloro che celebrano i misteri di Dioniso si coronano con foglie di pioppo bianco perché quella pianta appartiene al mondo infero. I pioppi bianchi erano sacri sia a Persefone, sia a Eracle che scese nel Tartaro e, al ritorno, intrecciò una corona con le fronde dell’albero che Ade aveva piantato presso i campi Elisi, in ricordo della sua amante, la ninfa Leuce che, inseguita da Ade si trasformò in pioppo, le foglie, che aderirono alla fronte di Eracle, si tinsero di bianco-argenteo. Possiamo individuare una connessione tra il pioppo e i riti funebri nel mito di Fetonte; le sorelle sono trasformate in pioppi che crescono lungo le rive del Po; dai nuovi rami, stillano lacrime che induriscono al sole trasformandosi in ambra “flument lacrimae, stillataque sole rigescunt / de ramis electra novis”;
Inoltre, quando Odisseo chiede a Circe di ripartire, la maga gli risponde che, prima di tornare a Itaca, deve traversare l’oceano e giungere dove si trovano
“le selve di Persefone, gli alti pioppi e i salici che perdono i frutti”.
E’ probabile, quindi, che l’albero di cui parla le tavolette orfiche sia un pioppo bianco, come ipotizza il Graves.
Anche nell’Iliade abbiamo un riferimento al pioppo come pianta che simboleggia il venire meno della vita: nel corso della prima grande battaglia, durante la quale i guerrieri troiani sono costretti a retrocedere, Aiace colpisce al petto, il “giovane e fiorente Simoesio: “…la lancia di bronzo passò da parte a parte la spalla. Cadde a terra nella polvere, simile a un pioppo, cresciuto nel prato di una vasta palude”.
Non solo presso i Greci, ma anche presso le popolazioni celtiche, il pioppo simboleggia il ciclo eterno di morte e rinascita.
LA “SACRA VIA”.
Le anime degli iniziati che hanno bevuto l’acqua del lago di Mnemosine percorreranno la sacra via: “Percorrerai la sacra via” dicono i custodi all’anima, alludendo al passaggio dalla condizione umana ad uno stato simile a quello divino, anche se non identico, privo di ogni turbamento e sofferenze.
Alcuni studiosi, come il Burkert, ritengono che la “sacra via” debba essere interpretata con riferimento ai misteri bacchici che consentono all’iniziato di entrare in rapporto con il dio.
Il convincimento che l’anima debba compiere un “percorso” è comune a molteplici esperienze religiose e filosofiche: Parmenide, nel proemio del suo poema, afferma che è stato portato dalle Eliadi, su un cocchio trainato da cavalli, davanti alla dea che gli prende la mano destra e gli parla rivelandogli la verità.
La “verità,” che consegue l’iniziato si riferisce alla natura divina dell’anima come si può desumere dalla risposta che l’iniziato dà ai custodi: “Sono figlio della Grecia e del Cielo stellato” (Petelia e Farsalo) a significare l’appartenenza dell’anima ad una patria celeste dalla quale si è allontanato e alla quale aspira a ritornare.
L’anima dell’iniziato, che beve l’acqua fredda che scorre dal lago di Mnemosyne, conosce una profonda trasformazione e si sottrae al ciclo delle rinascite; mentre coloro che bevono alla fonte dell’oblio, posta a sinistra delle case dell’Ade, si precludono ogni possibilità di attingere alla vita divina; bevendo a tale fonte, l’anima riceve un momentaneo refrigerio, ma dimentica la sua vera origine, e dovrà ricominciare il ciclo eterno di nascita e morte: sarà nuovamente prigioniera del corpo e del mondo terreno.
I non iniziati corrono in folla alla fonte dell’oblio, perché ignorano la verità e desiderano tornare all’unica forma di vita che conoscono; mentre l’iniziato “sa” che deve dominare la sete ed avvicinarsi alla fonte da dove sgorga l’acqua fredda proveniente dal lago di Mnemosyne
Solo l’acqua di Mnemosyne consente all’anima di acquisire la vita spirituale ed eterna alla quale aspira, mentre l’acqua proveniente dalla fonte dell’oblio dà un momentaneo refrigerio a cui segue, nuovamente, la “caduta” nell’esistenza temporale.
L’anima per volere del destino (Ananke) e di Zeus è stata “gettata” nel ciclo dell’ esistenza tormentata dal dolore, dalle sofferenze e dalla morte, ma, ormai pura, “vengo di tra i puri” chiede a Persefone di poter accedere alla “sede dei puri:
“vengo di tra i puri, o pura regina degli inferi,
Euklès e Eubulèus e quanti altri dei e demoni siete:
dichiaro di appartenere anch’io alla vostra stirpe beata.
Scontai la pena di azioni non giuste,
e mi assoggettò il destino e il folgorante Saettatore celeste.
Ora vengo a Persefone esauditrice,
perchè benevola mi mandi alle sedi dei puri”
Il tema del destino dell’anima dopo la morte e quelli connessi del carattere distintivo della natura dell’uomo e dell’impegno morale a cui ogni essere umano è chiamato, è stato oggetto di riflessione e di indagini da parte dei pensatori greci che hanno cercato di elaborare proposte coerenti alla luce della ragione. Molteplici pensatori hanno cercato una “via” che potesse condurre l’uomo al di fuori della precarietà esistenziale: i Pitagorici ritenevano che “la memoria” fosse il principio attraverso il quale si acquista la conoscenza; la memoria, quindi, costituisce la “guida” dell’anima e ad essa è correlata la verità; l’uomo conosce in quanto ricorda.
Le teorie pitagoriche relative alla psiche e le dottrine dell’orfismo sono presenti, in modo significativo, negli scritti platonici in particolare nei dialoghi: il Menone, il Fedro, il Fedone.
Platone nella VII lettera, afferma che “bisogna credere alle antiche e sacre tradizioni, che dicono che noi abbiamo un’anima immortale, soggetta a dei giudici e a pagare pene severissime dopo la sua separazione dal corpo.”
Il riferimento alle dottrine orfiche è evidente nel passo del Menone in cui Socrate, rispondendo a Menone che gli chiede come si possa fare oggetto di ricerca ciò che si ignora, afferma che i sacerdoti e le sacerdotesse e lo stesso Pindaro e molti altri poeti dicono che l’anima umana è immortale, che ha un suo compimento - il che si dice morire- e che rinasce; ecco perché, dicono, bisogna trascorrere la vita il più santamente possibile.
L’anima, dunque, poiché è immortale ed è più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è dunque da stupirsi se può far riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto; nulla impedisce che l’anima, ricordando una sola cosa, trova da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca,
Il legame indissolubile tra conoscenza e memoria è un fondamento essenziale nel pensiero platonico: nel Fedone la reminiscenza costituisce una delle prove dell’immortalità dell’anima: se la scienza è “reminiscenza,” ne consegue che l’anima preesiste al corpo e, nella vita precedente, ha appreso ciò che ricorda nella vita presente; pertanto “noi siamo nati già conoscendo quelle idee e ne conserviamo la conoscenza durante la vita tutti quanti, oppure, in seguito quelli i quali diciamo che apprendono, non fanno altro costoro che ricordarsi”.
Nel Fedro, Platone sostiene che occorre procedere dalla “molteplicità delle sensazioni” ad una “unità organizzata nel ragionamento”.
Tale comprensione è “reminiscenza delle verità che, una volta, l’anima ha veduto, quando trasvolava al seguito di un dio… e levava il capo verso ciò che veramente è”. Solo il filosofo “iniziato ai misteri perfetti” non si cura delle vicende quotidiane e delle false immagini delle cose; per quanto gli è possibile “è fisso nel ricordo di quegli appelli per la cui contemplazione la divinità è divina” e che aveva scorto nella “Pianura della Verità”. A queste riflessioni si collega il mito narrato nel Teeteto che sottolinea la stretta interconnessione tra conoscenza e memoria (che costituisce un elemento tipico delle dottrine orfiche).
“Fa conto” afferma Socrate nel Dialogo con Teeteto circa il problema che cos’è il conoscere, “che ci sia nelle anime nostre come un blocco di cera … codesta cera è dono di Menmosyne, la madre delle Muse; e che in essa esponendola alle nostre sensazioni e ai nostri pensieri noi veniamo via via imprimendo, allo stesso modo che s’imprimono segni di sigilli, qualunque cosa vogliamo ricordare di quelle che vediamo o udiamo o da noi stessi pensiamo; e quel che ivi è impresso noi ricordiamo e conosciamo finché l’immagine sua rimane; quello invece che vi è cancellato o sia impossibile imprimerlo, lo dimentichiamo e non lo conosciamo”.
Solo dalla dimensione, intesa da Platone, come reminiscenza, di ciò che l’anima ha contemplato e ha, poi, dimenticato, unendosi al corpo, deriva la possibilità di intuire la verità, intuizione che non può essere detta o scritta. La parola scritta, infatti, non potrà mai esprimere la “verità” colta quando una luce istantanea, illumina l’anima che si è sottoposta ad un lungo esercizio ed a un impervio cammino.
Solo poche anime riescono a salire “per l’erta che mena alla sommità della volta celeste per contemplare la “pura essenza”. Possono innalzarsi a tale visione solo coloro che “rettamente gravandosi di tali rammemorazioni cioè del “ricordo di quel che l’anima vede nel suo viaggio al seguito di un dio, allorché seguendo quelle cose che ora noi chiamiamo enti sollevò lo sguardo sino a ciò è che è «realmente»; cioè solo l’anima che “meglio sia riuscita a tenersi stretta alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione sopraceleste dimora l’essenza incolore che è contemplabile solo dall’intelletto ed è trascinata intorno con gli dei, nel giro di rivoluzione”.
Alla contemplazione della verità può innalzarsi solamente il filosofo, le anime, pur bramando di seguire il corteggio degli dei, ne sono impedite dal “cavallo indocile”, si urtano l’una con l’altra “accalcandosi”: nasce così, un tumulto ed una lotta con un estremo sudore, e, per l’ignavia degli aurighi, molte anime rimangono storpiate, e numerose riportano molte delle loro penne spezzate.
E’ chiara in Platone, come nella visione orfica, la netta distinzione tra l’anima divina e quella umana, gli dei infatti ascendono agevolmente al “sito sopraceleste” mentre, per le anime dei mortali “l’ascesa è faticosa” perché, a differenza dei cocchi divini che sono trainati da due corsieri “docili alle redini.” il loro cocchio è trainato da un cavallo di “buona razza” e da uno “maligno” che tira verso la terra. Esse, quindi, non potranno mai contemplare la “bellezza” nel suo splendore; tale “beata visione e contemplazione”è possibile solamente coloro che “non sono toccati dai mali” possono contemplare “visioni integre, semplici, immutabili e beate, in una pura luce, essendo anche noi puri e tumulati in questo sepolcro che ora ci portiamo dietro e che chiamiamo corpo, imprigionati in esso come l’ostrica”.
Platone, fa proprie, reinterpretandole alla luce della visione filosofica, le esperienze iniziatiche orfiche e, in particolare, il principio fondamentale: la verità può essere intuita grazie ad una visione “immediata” possibile quando sono stati superati i limiti posti dalla corporeità. Mentre, però, per gli iniziati la partecipazione al rito costituisce l’esperienza essenziale per poter percorrere, nell’aldilà, la “sacra via” per Platone (come per Pitagora) si può intuire la verità attraverso un lungo esercizio ed un “sapiente cammino” che occorre affrontare oltrepassando il mondo degli oggetti sensibili che non sono altro che “ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna”.
Comunque l’anamnesi rimane elemento fondativo del pensiero platonico: Mnemosine si tramuta in una facoltà interiore all’uomo. come osserva il Moreau: “la reminiscenza esprime l’interiorità, il carattere a priori della conoscenza intellettuale” e lo “sforzo” di ricordare costituisce la via per la ricerca del vero, cioè il richiamare alla memoria “la verità che una volta l’anima nostra ha veduto”. Dopo la morte, dunque, coloro che “si sono segnalati per la santità della vita vengono a trovarsi senz’altro liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da carceri, e giungono in alto nella pura dimora…E di costoro sono quelli i quali, fatti mondi e puri dalla filosofia, vivono il resto di lor vite senza legami corporei per tutta la distesa dei secoli e pervengono in abitazioni anche più belle di queste, le quali non è facile descrivere, né basterebbe il tempo nell’ora presente”.
L’iniziato troverà “la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosine:” dove si trovano i custodi.
Il filosofo sarà lieto di andare colà poiché “in nessun altro luogo potrà incontrare la pura e perfetta sapienza”.
Se noi siamo convinti che l’anima è immortale e che può “godere ogni bene”, sempre ci terremo alla via che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la giustizia insieme con l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agli dei, sia finché resteremo giù, sia quando riporteremo i premi della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il suo premio; e per vivere felici in questo mondo e nel millenario cammino.
Il discorso di Socrate conclude il complesso dialogo della “Repubblica”, nel quale sono discesi, oltre al problema centrale dello Stato, altri temi fondamentali della dottrina platonica: del conoscere e del destino dell’anima, ed evidenzia il ruolo della ragione che guida le scelte dell’anima nella vita presente ed in quella oltremondana: anche se il Logos non può “dire tutto” poiché i principi primi possono essere oggetto solo di un’intuizione; tuttavia, logos e “ispirazione divina” non possono essere disgiunti: entrambi sono correlati l’uno all’altro: solo l’uomo assennato può “ricordare e considerare le cose dette in sogno o nella veglia dalla natura divoratrice e ispirata” e discernere con il raggiungimento tutte le immagini vedute, ricercando come e a chi annunzino un male o un bene futuro o passato o presente. Infatti, chi è preso da furore e rimane ancora in questo stato non è in grado di giudicare le sue visioni e le sue parole verità intuite devono essere presenti all’anima, affinché sia possibile l’indagare e il giudicare la visione della verità e “memoria” di tale visione, intuizione e ragione sono inscindibili, come sostiene anche Aristotele, per il quale i principi del pensare sono intuiti dalla mente: “il principio della dimostrazione non è una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza risulterà una scienza”, pertanto, “l’intuizione dovrà essere il principio della scienza”.
LA PERMANENZA DELL’ ORFISMO NELLA CULTURA OCCIDENTALE .
Lo sviluppo della scienza e della tecnica ha condotto ad uno “svilimento” del momento intuitivo e a uno “snaturamento spirituale” che provoca il “rifiuto” a meditare i problemi essenziali del destino umano: non solo, ha “fatto tacere completamente” le “voci” che provengono da un lontano passato.
L’uomo è solo sulla terra, travolto dalla caducità delle cose; sul piedistallo della statua di Ozymandias si leggono le parole: “il mio nome è Ozymandias, re dei re. Contemplate le mie opere, o Potenti, e disperate. Null’altro resta. Intorno alle rovine del relitto. Colossale, nuda, infinita, informe la sabbia si distende solitaria..”
Perché i poeti? si chiede Heidegger, quando “La notte del mondo distende le sue tenebre… e si è spento lo splendore di Dio nella storia universale”; l’ uomo crede che attraverso la produzione di beni e l’ accumulazione del denaro sia possibile rendere tutti felici, ma l’uomo non si rende conto del grave pericolo che incombe su di lui riponendo totale fiducia nella tecnica; è necessario che si verifichi una svolta affinchè venga abbandonata la vita “ordinaria” e l’ uomo possa salvarsi dall’ abisso in cui sta precipitando. Solo i poeti, come Rilke e Hoderlin “apportano ai mortali la traccia degli Dei fuggiti nelle tenebre della notte del mondo”; solo loro, nel tempo della povertà, possono cogliere le tracce degli Dei fuggiti.
“Se anche rapido muta il mondo
come figure di nuvole,
ogni cosa congiunta rimpatria
giù nell’origine
Al di là del processo e del mutamento
più libero e più vasto
ancora persiste il tuo preludio
dio della lira
Non è riconosciuto il dolore
non è appreso l’amore,
e ciò che nella morte ci allontana,
non è disvelato.
Solo il canto sopra la terra
consacra e celebra”.
Occorre porsi nella dimensione dell’ascolto, rimanere in attesa “senza rappresentarci nulla”; l’essenza del conoscere è, quindi, “un approssimarsi alla verità dell’Essere”.
La via è indicata dal canto del poeta che invita l’uomo a “porsi” nella dimensione dell’ascolto; l’uomo che ascolta può avvertire la voce del dio e il suo canto, anche se inadeguato, “conserva la traccia del sacro.
Il canto si dissolve, ma, forse, prima che “si consumi” totalmente, sarà possibile svelare il mistero della morte, poiché “solo il canto sopra la terra consacra e celebra” e, attraverso il canto e l’ascolto, è possibile uscire dalla condizione di precarietà propria dell’esistenza umana.
I fanciulli che intrecciano i loro giochi, il rumore ed il movimento delle carrozze, i giardini “dispersi” di città, la folla che passa, le cose che “s’ergevano d’intorno forti ma non vere” tutto si dilegua come l’arco, disegnato dalla folla nell’attimo che ascende verso l’alto e subito dopo ricade e al centro dell’arco, simile all’arcata di un tempio, il fanciullo, anch’egli figura momentanea e precaria, colto nell’attimo che tende le mani per raccogliere il pallone.
Ma forse, gli uomini non sono così “fragili” come il “destino vuol farci credere,” non sono come gli “aquiloni strappati via sospesi a mezz’aria” vaganti, non sono irrisori lembi dal vento sbrindellati; di là dello scorrere inesorabile del tempo “distruttore”, sussiste la “permanenza”; la vita dei mortali è scandita dal procedere del tempo: temporalità ed esistenza sono interconnesse e lo scorrere del tempo sembra annullare tutte le cose.
Dobbiamo morire: Euridice precipita nuovamente nell’Averno quando Orfeo, incautamente, si volta, per vivere, noi e lei nel canto, giù “tra color che passano” nel regno del declino dove gli uomini sono la “cosa” più fragile “un cristallo che suona, e che nel suono già s’infranse”. (II, XIII, p. 97).
Il canto di Orfeo affascina persino le case della Morte, i recessi del Tartaro e le Eumenidi i capelli intrecciati con serpenti cerulei; Cerbero trattiene spalancate le tre fauci e la ruota su cui gira Issione si arresta assieme al vento.
Il “canto è esserci” afferma Rilke nel terzo dei Sonetti a Orfeo; ma, mentre il canto di Orfeo è infinitamente più prossimo al “Canto originario”, il “canto” dei poeti è inadeguato “Un soffio del dio. Un vento” ma costituisce, comunque, una via per “dire” l’inesprimibile.
Il poeta cerca di decifrare il messaggio “misterioso” della Chimera, ma l’enigma (come esprime in forma lirica Campana ne La Chimera) non può essere risolto definitivamente; l’uomo può solo “approssimarsi” a ciò che, è vicino, ma anche infinitamente lontano.
“Per il bambino che è racchiuso nell’uomo la notte resta sempre Colui che approssima le stelle”.
“Stupuere domus atque intima Leti
Tartara caeruleosque implexae crinibus anguis
Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
atque Ixionii vento rota constitit orbis.”
Marcello Pera nel saggio “Il relativismo, il cristianesimo e l’occidente” sostiene che “il relativismo ha fatto guasti e continua a fare da specchio e da cassa di risonanza dell’attuale umor nero dell’Occidente. Lo paralizza quando già è immobile e spaesato, lo rende inerme quando già è arrendevole, lo rende perplesso quando già è poco incline ad accettare le sfide”.
La profonda crisi spirituale che sconvolge la società occidentale, rende necessaria una riflessione ed una indagine volta a porre in luce le “radici” che stanno a fondamento della cultura e della spiritualità europea.
Le radici culturali e spirituali della civiltà occidentale affondano nella civiltà greca, non solo per l’esperienza filosofica che i Greci hanno elaborato a partire dal VII secolo a.C., ma anche per la creazione di visioni religiose relative all’aldilà e al destino dell’ anima dopo la morte.
DINO CAMPANA, LA CHIMERA
NOTE
- Platone, La Repubblica, libro X, Laterza 1966;
- G. Caratelli, Le lamine d’oro orfiche, 41, Adelphi, 2001;
- Graves, I miti greci, Longanesi, Milano:
- Ovidio, Metamorfosi, libro 1 v. 364;
- Omero, Odissea, libro V, versi 509-516;
- Graves, op. cit.;
- Omero, Iliade, libro IV, p.481-484
- Burkert, Megales Hellas, Storia civile della Magna Grecia, Garzanti;
- Parmenide, Sulla Natura, v. 22 e seguenti;
- 10)G.Caratelli, op.cit. p.101;
- 11)Platone, VII lettera, p. 33
BIBLIOGRAFIA
Caratelli G., Le lamine d’ oro orfiche, Adelphi, 2011;
Dodds E., I Greci e l’ irrazionale, BUR, 2010;
Droz G., I miti platonici, Ed. Dedalo1994;
Graves, I miti greci, Longanesi, 1999;
Havelock E., Alle origini della filosofia greca, Laterza, 1996;
Szlezak T., Come leggere Platone, con presentazione di G. Reale, Rusconi 1991;
Platone, Opere, Laterza, 1966;
Vernant J.P., Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi;