H. ARENDT Il tema della violenza


H. ARENDT
IL TEMA DELLA VIOLENZA

La Arendt nel saggio “Sulla violenza” osserva «Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani»; e nell’opera sulla "Rivoluzione" evidenzia come la rivoluzione sia legata da un nodo inestricabile alla violenza ed alla forza: «l’importanza del problema del cominciamento o genesi del fenomeno della rivoluzione è ovvio. Che tale cominciamento debba essere intimamente connesso con la violenza sembra confermato dalla leggendaria genesi sia nella tradizione biblica sia in quella classica: Caino assassina Abele e Romolo assassina Remo, la violenza è stata l’inizio e nessun inizio ha potuto esistere senza violenza, senza una violazione...». 
Ma la violenza non è mai risolutiva. . Nel trattato sulla violenza, H. Arendt polemizza con Sartre che, nella prefazione all’opera di Fanon “I dannati della terra,” romanzo che ebbe grande successo specie tra i giovani contestatori americani, aveva affermato «La violenza come la lancia di Achille può cicatrizzare le ferite che ha prodotto», la Arendt sostiene che il «mito della violenza» è «più astratto, ancora più lontano dalla realtà, di quanto non sia mai stato il mito dello sciopero generale di Sorel....Leggendo queste grandiose ed irresponsabili affermazioni ... e guardando ad esse nella prospettiva di quanto sappiamo nella storia delle rivolte e delle rivoluzioni si è tentati di negare loro qualsiasi significato, di attribuirle ad uno stato d’animo passeggero, o all’ignoranza di gente esposta ad avvenimenti e a sviluppi senza precedenti, sprovvista di qualsiasi mezzo per affrontarli mentalmente violenza è certamente in grado di distruggere il potere, ma non di crearlo e, pur essendo inalienabile dalla convivenza umana, tuttavia non può assumere un ruolo esclusivo, pena il completo dissolversi della convivenza umana.” 
Secondo la Arendt un elevato «tasso» di violenza caratterizza la società contemporanea poiché è venuto meno il principio della responsabilità individuale (dove tutti sono colpevoli nessuno lo è) e predomina la «burocratizzazione» del potere per cui si è affermato «il dominio di un intricato sistema di uffici per cui nessuno, né uno. né i migliori, né i pochi né i molti, può essere ritenuto responsabile».L’affermarsi della burocrazia priva l’uomo della facoltà d’agire che, secondo la Arendt, costituisce la dimensione specifica della «identità umana».
La violenza nella società odierna è segno di un diffuso malessere che trae le proprie origini dal venir meno della dimensione autenticamente politica, dimensione che la Arendt individua nella polis greca.
 Ciò non significa che la Arendt proponga una visione mitizzante della polis, quasi che il mondo greco costituisca una sorta di «eden»; la polis rappresenta un termine di confronto con il mondo attuale; d’altra parte l’esperienza greca, non si può considerare come superata e totalmente conclusa; i temi della libertà, della responsabilità di ciascuno e della giustizia costituiscono il fulcro della meditazione di Platone e di Aristotele e sono, tuttora, oggetto d’indagine e riflessione; nell’era della globalizzazione dell’economia e della politica, la ricerca relativa a che cosa sia la giustizia e la difesa della “cittadinanza democratica” appaiono irrinunciabili, onde evitare la “massificazione” e la distruzione della coscienza individuale.   
 In “Vita activa”, opera di filosofia politica, apparsa negli U.S.A. nel 1958, la Arendt fonda la sua indagine sulla categoria dell’agire che contraddistingue l’uomo; occorre osservare che nella riflessione della Harendt l’agire assume un valore ontologico: la studiosa vuole proporre una nuova visione dell’uomo la cui “essenza” viene individuata, appunto, «nell’agire», in opposizione alla visione dominante della tradizione occidentale che ha sempre privilegiato il pensiero.
«L’agire» implica il rapporto con altri uomini: non è pensabile, infatti, che chi agisce non trovi conferma della sua azione nell’inter-azione con altri, «l’azione... non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati significa essere privati della facoltà di agire» Solo la dimensione politica può costituire un efficace antidoto alla violenza poiché unicamente all’azione politica è strettamente connesso il discorso inteso come mezzo attraverso cui gli uomini possono esprimersi “sugli affari comuni in uno spazio comune”.
La Arendt considera la polis quale modello ideale dell’agire politico poiché il vivere insieme degli uomini nella forma della polis sembra garantire che le più futili attività umane, l’azione ed il discorso. e i meno tangibili e più effimeri prodotti umani, le gesta e le storie a cui danno vita sarebbero stati imperituri”; l’agire e il discorso, hanno forse preceduto la stessa fondazione della polis, se già  Omero sostiene che Achille  è autore di “grandi imprese e pronuncia grandi discorsi,”   mentre la violenza è muta ed ha solo natura “strumentale;”  la vittoria della violenza sfocia nel terrore che appare l’unico mezzo per mantenere il potere e la dominazione.
Il “giudizio” costituisce un elemento fondamentale dell’attività politica; mentre la rivoluzione era (ed è) caratterizzata dalla violenza: vince chi usa la violenza con maggior determinazione. La rivoluzione è «a strugle for power»: essa «divora i suoi figli», è una tempesta che tutto spazza via e sommerge.
La violenza che connota la rivoluzione appare quando sulla scena politica compaiono i poveri: la compassione suscitata dalle condizioni di miseria abietta e degradante è all’origine dei movimenti rivoluzionari tipici dell’età moderna.
 Infatti, a partire dal XVIII secolo, in diversi strati della società europea, si  è diffusa una «innata ripugnanza a veder soffrire una creatura umana»;  da quel momento «la passione della compassione ha ossessionato e trascinato gli uomini migliori di tutte le rivoluzioni» Robespierre ha tolto la compassione alla sfera privata e l’ha trascinata sulla pubblica piazza; e il sentimento che «corrisponde alla passione della compassione è, naturalmente, la pietà».
Par pitié, par amour pour l’humanité, soyez inhumains” si sostiene in una petizione presentata da una delle sezioni della Comune di Parigi alla Convenzione nazionale; la pietà appare come “fonte di virtù” e, in quanto tale, possiede un enorme potenziale di crudeltà.
Quando i “malheureux” appaiono sulla scena della storia, i bisogni reali determinano lo sviluppo della rivoluzione. La rivoluzione francese è stata un modello per tutte quelle successive: da allora le masse oppresse dalla miseria sono state utilizzate nella lotta politica. Ovviamente, non sono i poveri ad avviare il processo rivoluzionario; in Francia la rivoluzione ebbe avvio grazie all’opera di uomini di lettere, di teorici isolati, la decisione di promuovere l’azione rivoluzionaria è assunta da un gruppo ristretto, non scaturisce da una deliberazione presa da tutta la comunità.
La Arendt nel saggio “Sulla rivoluzione” contrappone la rivoluzione francese a quella americana e ritiene che solo quest’ultima sia contraddistinta dalla partecipazione alla vita pubblica, dall’autogoverno, dalla libertà politica. Ciò non deve indurre a credere che la Arendt abbia una visione acritica della rivoluzione americana, anzi evidenzia come l’affievolirsi dello spirito rivoluzionario non abbia consentito il realizzarsi di «istituzioni durature per la formazione di idee e pareri nel pubblico» e sottolinea come Jefferson sia forse l’unico uomo politico ad essere consapevole che le istituzioni non dovevano essere rese immutabili perché nulla è immutabile se non gli inalienabili diritti dell’uomo. Infatti, egli propose di inserire nella Costituzione una clausola «per un controllo a periodi determinati»  e di dare forza alle assemblee. dove i cittadini potessero "esprimere, discutere, decidere» e non avesse solo attuazione il sistema della rappresentanza. E’  illusorio considerare possibile una quiete perfetta ed è un sogno ritenere che possa essere eliminata totalmente la guerra e la violenza. Come sostiene Kant, è proprio della natura umana una «insocievole socievolezza»; quindi l’antagonismo è ineliminabile e la «pace perpetua» costituisce un fine ultimo cui tendere «perché questo è il nostro dovere».
Nelle lezioni tenute alla New School for Social Research, durante il semestre autunnale del 1970, dedicate alle analisi della critica del giudizio tali lezioni sono ora raccolta nel volume: Teoria del giudizio politico, (curato da Ronald Benier, trad. italiana di P.P. Portinaro, ed. Il Melangolo), la Arendt evidenzia come, al centro della riflessione kantiana sulla filosofia della storia, stia «il progresso incessante del genere umano»; tale processo non ha fine ed in esso «trovano realizzazione le disposizioni del genere umano» che si «sviluppano fino al punto più alto, anche se il punto più alto, in un senso assoluto, non esiste».
La destinazione ultima, in senso escatologico, non esiste; la libertà e la pace costituiscono dei “fini ultimi” a cui tende il processo storico, non mete conseguibili una volta per tutte. Ciò che contraddistingue l’uomo da tutte le specie animali non è solo il possesso del linguaggio e della ragione, ma anche il fatto che «le sue disposizioni sono capaci di uno sviluppo illuminato».
La sfera politica, pertanto, sorge direttamente “dall’agire insieme, dal condividere parole e azioni”; “condividere parole significa giudicare”; giudicare implica la possibilità di comunicare gli uni con gli altri in merito alle questioni che riguardano l’umanità in generale; il giudizio è, quindi, una facoltà razionale «politicamente molto importante» (sulla Rivoluzione pag. 264); infatti, il giudizio è correlato alla socievolezza dell’uomo ed implica la libertà politica intesa kantianamente come «fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi»
H. Arendt sottolinea che la violenza si distingue dal potere: la violenza ha una propria origine e si afferma quando il potere è posto in discussione, come attestano i movimenti rivoluzionari. Ciò che rende l‘uomo un essere politico è la sua facoltà di agire, che gli consente di riunirsi con i suoi simili, di raggiungere obiettivi e di realizzare imprese. Filosoficamente parlando, agire è la risposta umana alla condizione di essere nati.
E‘ cittadino libero quello che partecipa alla direzione del paese: tuttavia,   attualmente, si sta creando una condizione umana che può sfociare nella  violenza, considerato il grave degrado da cui è investita la società odierna, poichè  l‘ interesse di parte prevale rispetto all‘ interesse di tutti.
La violenza ha origine dal disgregamento del potere.

BIBLIOGRAFIA

Arendt H, Sulla violenza, U. Guanda, 1970
Arendt H. Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità1983;
Arendt H- Vita activa, la conizione umana, Bompiani, 2017;
Arendt H. Teoria del giudizio politico, Mondadori;
Arendt H.  Le origine del totalitarismo,1966;
Fanon, I dannati della terra;
Kant, Critica della ragion pratica, Bompiani, 2004;
Cristeva Iulia; Hannah Arendt, Donzelli editore, 2005;
Leibovici Martine, Hannah Arendt, Città aperta dizioni,2002