TRIAS: L'artista e la citta'
TRIAS : L’ARTISTA E LA CITTA’
DATI BIOGRAFICI
Nato nel 1942 a Barcellona, ha insegnato, dapprima, alla facoltà di Architettura del Politecnico della Catalogna, quindi, dal 1992, presso l’ università “Pompeu Fabra,” sempre a Barcellona, città dove ha trascorso tutta la sua vita.
Trias ha composto numerose opere (una trentina), oltre ad articoli pubblicati su giornali e riviste e mai raccolti in volume; ha ricevuto diversi premi come il “Premio Nueva critica” nel 1974, l’ “Anagrama” nel 1975, il Premio “Nacional de Ensayo” nel 1983, il “Ciutat de Barcelona” nel 1995 e, nello stesso anno, il “Premio internazionale F. Nietzsche” per il “valore della sua opera”. Tra i libri più significativi si possono indicare: “La filosofia y su sombra” (1969); “Drama e identidad” (1974); (tradotto in francese “Drame et identitè” “El artista y la ciudad” (1976); “Tratado de la pasion” ( 1979); (questi ultimi due tradotti in italiano); (Los limites del mundo” (1985); “Logica del limite”; (1991); “La edad del espiritu” (1994); “La razon fronteriza” (1999). Le indagini di Trias riguardano diversi ambiti:etica – estetica – filosofia della religione – ontologia .
Trias ha partecipato attivamente al rinnovamento del pensiero filosofico che si è sviluppato in Spagna, dopo la morte di F. Franco; Barcellona e Madrid divennero “centri” di tale rinnovamento che aveva lo scopo di superare l’ isolamento in cui si trovava la cultura spagnola. Trias, da un lato, si riallaccia, ai filosofi più significativi della tradizione culturale europea: Platone – Kant – Hegel – Nietzsche – Heidegger – Wittgenstein, dall’altro, elabora una nuova linea di pensiero nel tentativo dì individuare una possibile risposta alle problematiche che scuotono la società contemporanea. In particolare Trias riprende temi già affrontati da Kant e da Wittgenstein che avevano evidenziato i limiti entro cui l’uomo può conoscere ed elabora una “filosofia del limite” interpretando il termine “limite” secondo il significato del latino “limes.” I Romani, infatti, intendevano per “limes” non solo la linea di confine tra due territori, ma anche lo spazio aperto compreso tra “i domini dell’ Impero” e lo “spazio esterno;” ” il “limes”, pertanto, aveva “la sua ampiezza e la sua vastità per sottile, fragile e oscillante che fosse.” Coloro che abitavano in tale territorio potevano coltivare la terra e coglierne i frutti; si può dire, quindi, che vivevano come sospesi tra “due ambiti distinti”: “il mondo proprio “ che era costituito dal territorio dell’ Impero, e “lo spazio esterno” situato oltre il limes al quale si avvicinavano gli stranieri o “barbari;” essi erano soggetti alla protezione ed alle leggi dell’ Impero, ma, anche, continuamente attratti dal territorio esterno, da ciò che era “oltre”.
IL RAPPPORTO TRA L’ ARTISTA E LA CITTA’
Trias conduce l’ indagine relativa al rapporto tra l’artista e la città su due piani: storico e politico: sotto il profilo storico Trias traccia un percorso da Platone all’età contemporanea circa le molteplici modalità della posizione dell’ artista nel contesto socio-culturale in cui visse; sotto il profilo politico il filosofo esamina le alterne vicende del rapporto tra l’artista e la città. L’analisi è condotta attraverso l’esame del pensiero di alcuni pensatori (Platone – Pico della Mirandola – Hegel – Nietzsche) e dell’ opera di alcuni esponenti di spicco della letteratura (Goethe – Mann) e della musica (Wagner). Tale iter ha lo scopo di dimostrare che la correlazione tra l’arte, intesa come creazione del bello e dell’armonia e la città, intesa come luogo della produzione e della politica, costituisce “la compiuta sintesi di fare e sapere, di vita attiva e vita contemplativa, di estasi mistica e poiesis civile, politica, di raptus “. Quando tale sintesi si spezza: “la sfera spirituale appare allora svincolata dalla sfera sociale, di modo che Eros non si prolunga in alcuna produzione, di modo che Poiesis non trova né in Eros né nella Bellezza il suo principio e il suo fondamento”.
Nell’ Ottica di Trias si tratta di ricostituire una correlazione tra l’ “Anima” e la “Città,” d’individuare un percorso che conduca al superamento del profondo malessere che affligge l’ uomo moderno che “non trova, né può trovare il suo inserimento soddisfacente nella città”.
UNA DIVERSA LETTURA DI PLATONE
Platone, nella Repubblica, condanna l’arte sul piano pedagogico - politico, in quanto corrompe gli animi e su quello metafisico: l’opera d' arte, infatti, imita le cose sensibili che non sono altro che imitazioni delle Idee, si tratta di un’imitazione di tre gradi lontana dal vero; gli artisti creano delle immagini ingannevoli che non danno alcuna conoscenza.
Trias ritiene che, in merito al rapporto tra l’ artista e la Città, occorre non limitarsi alle riflessioni espresse da Platone nella Repubblica, in base al presupposto che la sintesi di “Eros e Poiesis”, di “Anima e Città”, di “Arte e Società” consente di attuare un ordine sociale nel quale ogni uomo è artista e, di conseguenza, soggetto erotico e produttore allo stesso tempo; Trias, ritiene che Eros non sia solo desiderio contemplativo, ma “desiderio” di produrre il bello: “L’oggetto di Eros, ciò che propriamente lo definisce, è la fecondazione. Eros è, quindi, istanza fertile produttiva”(1). Trias definisce l’Eros platonico “Eros produttivo” poichè il desiderio di possedere la Bellezza non si traduce solo nella contemplazione del “Bello,” ma implica pure l’operare, l’ agire per produrre cose belle; entrambi i desideri sono presenti nell’ uomo: Eros come desiderio di ascendere alla visione del mondo ideale, Poiesis quale desiderio di produrre un‘opera d’arte; l’artista, quindi, “è l’ artefice di quel progetto erotico - poietico e la città è la sua opera” (2). Non solo. Trias sostiene che, nel Fedro, Eros è considerato come una forma di pazzia, è la mania divina per via della quale il soggetto perde il dominio di sé e si comporta come un alienato; l’amante, posseduto da un dio, è come colto da pazzia. La Bellezza, quindi, può essere rischiosa: essere causa di pazzia e di morte.
LA SINTESI DI EROS E POIESIS NELL’ UMANESIMO
PICO DELLA MIRANDOLA
Trias ritiene che l' Umanesimo sia l’unica epoca in cui vi sia stata una compiuta integrazione tra l’ artista e la città ed una profonda sintonia tra la visione degli artista e quello della società. In particolare a Firenze gli intellettuali partecipano attivamente alla vita civile, alcuni di essi hanno ricoperto cariche pubbliche attuando , in tal modo, uno stretto legame tra “Anima e città”, tra “Eros e Produzione.” Trias considera, quale modello della cultura umanistica Pico della Mirandola che, nella sua opera, “ Oratio de hominis dignitate”, delinea una sintesi tra l’ Uomo, e la “bella città rinascimentale” oggetto della sua produzione; egli, come l’artista poietico di Platone, è il creatore della città: “L’uomo di Pico della Mirandola costituisce la trascrizione concettuale di un’esperienza di Anima e Città che negli anni del Rinascimento italiano, segnatamente fiorentino, fu meravigliosamente abbozzata. Esperienza che dette vita all’ uomo universale e singolare, l’anima che è tutte le cose, impegnata costruire, a propria immagine e somiglianza una città in cui l’Uomo possa trovare qualcosa di simile ad un’ autentica dimora”. Pico delinea, efficacemente, la figura dell’ uomo che costituisce “la compiuta sintesi di fare e sapere, di vita attiva e vita contemplativa, di estasi mistica e poiesis civile, politica, di raptus poetico e impegno sociale” (2)
LA SEPARAZIONE TRA L’ ARTISTA E LA CITTA’
La sintesi artista-città ha avuto breve durata: nei secoli successivi si è sviluppato un progressivo “sgretolamento” che, ormai, si è trasformato in una frattura profonda per cui “i due termini del rapporto cominciano a costituirsi in ordini autonomi,estranei e separati”. Tale processo si sviluppa in seguito all’ affermarsi della cultura illuministica e dello sviluppo industriale per cui tra l’ artista e la città si delinea un processo di rottura che, nel corso dei due secoli successivi, si approfondisce a tal punto che tra la dimensione artistica e l’ attività produttiva non sussiste più alcuna relazione .
Goethe, il 17 marzo 1832, cinque giorni prima di morire, scrive, a Wilhelm von Humboldt, un’ ultima lettera concludendo: “Una dottrina fuorviante di un agire fuorviato regna nel mondo, ed io non ho nulla di più appropriato da fare che fin dove è possibile incrementare quanto mi appartiene e mi è rimasto e distillare le mie caratteristiche, come fate anche Voi, degno amico, nel vostro castello.” Le ultime parole di Goethe, sembrano indicare un completo distacco dalla società e, certamente, è possibile ravvisare, nei suoi scritti motivi che possono suffragare tale visione:
Selige Sehnsucht
Non lo dite a nessuno, solo ai saggi,
perché la folla subito dileggia.
Voglio fare l’ elogio di una vita
Che agogna ad una morte tra le fiamme.
Nel fresco delle notti
D’amore, dove ti hanno concepito
E dove hai concepito, ti sorprende
Un ignoto malessere
Se, nel silenzio, splende una candela.
Non puoi più rimanere avviluppato
Nell’ ombra della tenebra
e ti travolge un nuovo desiderio
Di congiunzioni più nobili.
Non c’ è distanza che ti faccia peso.
Avvinta, vinta, arrivi
A volo, e finalmente
Per bramosia di luce,
prendi fuoco, farfalla.
Finchè non lo fai tuo,
questo “muori e diventa”,
non sei che uno straniero ottenebrato
sopra la terra scura
.
C’è una canna speciale
Che sa addolcire i mondi.
Scorre dal mio cannello
Un flusso di diletto
( W.Goethe, Il divano occidentale-orientale, Rizzoli, 2008 p.94)
La parola “Sehnsucht” può essere tradotta in italiano con “desiderio,” “brama appassionata,” si tratta di un desiderio volto all’ infinito, all’ irraggiungibile, un’aspirazione intrisa di erotismo per ciò che sta “al di là” della realtà che ci circonda , della quotidianità in cui si è immersi. Le metafore della farfalla e della luce sono delle immagini tipiche dell’aspirazione erotica: la farfalla è simbolo dell’ anima che, ammaliata dalla luce, muore prendendo fuoco. La morte e la pazzia, infatti, sono inestricabilmente in rapporto con Eros – già Platone nel Fedro aveva evidenziato l’ ebbrezza , l’ esaltazione irrazionale dell’ amore, ma per il filosofo greco si trattava di un passaggio provvisorio, poiché Eros conduce l’anima alla filosofia e alla contemplazione delle pure essenze per poi “discendere” tra gli uomini e creare la città ideale, per Goethe, invece, e successivamente per i Romantici, la passione amorosa conduce l’ anima al sacrificio di sé sino alla morte.
Nella vastissima produzione di Goethe si possono riconoscere due anime, tra loro in apparenza antitetiche, ma in realtà unite, in un legame indissolubile: l’anima romantica e l’anima classica, quella titanica e distruttiva o auto-distruttiva, colma di un esasperato individualismo e quella conciliante e armonica. Trias evidenzia che “La grandezza di Goethe risiede nell’aver saputo vivere in perfetta armonia contemporaneamente su due piani differenti, senza strappi o dissonanze” e sottolinea che: “Goethe condusse la propria vita in modo tale che il doppio eccesso dell’aspetto notturno e dell’aspetto luminoso non riuscirono a sopraffarlo”. Del resto, conclude Trias in Goethe “l’opera d’arte è compiuta sintesi armonica (4).
L’analisi degli immortali capolavori goethiani rivela proprio il sottile equilibrio dell’autore tra i due grandi opposti, il buio e la luce, la ragione e l’irrazionalità, la logica e le passioni, il cielo luminoso e la terra oscura. Il primo grande personaggio goethiano è Werther: siamo nella fase artistica dominata dalla corrente dello Sturm und drang, che si colloca in clima preromantico ed è attraversata dall’esaltazione della potenza della sfera emotiva, di contro alla fredda ragione calcolatrice. Werther è un personaggio di rottura con la tradizione, in quanto incarna le tensioni e la spinta ideale delle nuove generazioni, che si muovono contro le convenzioni dell’epoca. Testimone di questo clima ideale teso alla critica radicale della società è anche Rousseau, il quale nella Novella Eloisa conduce un’appassionata requisitoria contro le false convenzioni e le consuetudini dell’epoca che – a suo giudizio - minano alle fondamenta la libertà individuale ed emotiva dell’essere umano.
Werther è l’alter ego di una generazione che inizia a cercare e a definire una nuova dimensione di esistenza di contro ai modelli tradizionali. Questo romanzo è nato sotto il segno della rottura degli schemi mentali correnti, esprime rabbia e rifiuto. Ben altrimenti si muove Goethe nella sua successiva produzione, nella continua ricerca di una mediazione tra passato e presente, tra ribellione agli schemi e tradizione. Il ribellismo si mantiene, infatti, ma è superato da una più armonica visione del mondo. Lo dimostra perfettamente il capolavoro goethiano: il Faust, opera complessa che impegnò l’autore per 60 anni.
Nel prologo Mefistofele scommette con Dio che riuscirà a portare alla perdizione l’integerrimo medico-teologo Faust; Dio non accetta la scommessa (essendo Dio, non si abbassa a scendere a patti né a scommettere con alcuno), ma gli dà il permesso di tormentare Faust, così che il dottore non sia mai indotto a riposarsi o arrendersi. Dio sa che Faust è un uomo buono ed è fiducioso che si salverà comunque. Così Mefistofele appare a Faust promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell’attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust è sicuro di sé: tale è la sua brama di giovinezza, di azione e di conoscenza, che è convinto che nulla al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di fermare quell’attimo. Mefistofele gli fa conoscere la giovane Margarete (Margherita) che si innamora perdutamente di Faust, inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è nient’altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di Margherita sarà tragica.
Nella seconda parte Goethe celebra l’unione tra letteratura classicistica e mondo classico: Faust seduce e viene sedotto da Elena e hanno un figlio, Euforione (nel mito, figlio di Elena, che è destinato a morire giovinetto. In seguito, Faust preso, dalla nostalgia e dai rimpianti (ripensa a Margherita, Elena ed Euforione) si stabilisce in un appezzamento costiero applicandosi, costantemente, a bonificare la zona. È molto vecchio ormai, e l’Angoscia (un diavolo che personifica la depressione) lo tenta continuamente, e per farlo cadere nello sconforto lo priva della vista. Ma Faust non si abbatte neanche nella cecità. Immaginando un futuro roseo dove un popolo laborioso e libero avrebbe realizzato grandi opere per la propria felicità; Faust afferma che, se fosse vissuto tanto da vedere quelle opere, avrebbe desiderato che quell’attimo si fermasse:Faust è, ormai, vecchio e cieco, la sua anima dovrebbe essere preda di Mefistofele; ma un esercito celeste sconfigge il diavolo e porta in Paradiso; dinanzi al trono della Mater Gloriosa intercede per l’ anima di Faust e un angelo spiega il motivo per il quale Faust è stato salvato: la sua continua aspirazione all’infinito. L’opera ebbe un successo straordinario grazie anche alla piena comprensione da parte dell’autore dell’anima moderna, protesa verso ideali sempre più elevati.
Il Faust è una vera e propria summa dell’intero percorso poetico ed umano di Goethe, una sorta di “testamento spirituale”: qui si afferma infatti che al di là del mondo effimero, incompleto ed imperfetto del divenire terreno, con le sue contraddizioni e i suoi contrasti, esiste una dimensione eterna in cui si annullano i conflitti, giungendo ad una armonia universale che tutto accoglie e tutto riequilibra. E’ il grande e ultimo senso della vita umana, vista come un lungo viaggio, incerto ed inquieto, sempre proteso verso la ricerca, verso il futuro e, proprio in questa tensione, la vita trova la sua essenza, perché chi cerca, senza mai arrendersi e senza rinunciare ai propri ideali, giunge all’armonia universale del tutto. Così dal tormento esistenziale ed emotivo di Werther si arriva ad una visione totalizzante e positiva della vita umana, in cui l’arte stessa trova il suo ruolo e il suo motivo d’essere, vale a dire la costruzione di un futuro luminoso e roseo, che forse non si realizzerà mai, ma che comunque vale la pena di perseguire.
A complemento del Faust si pone l’altro capolavoro di Goethe: “Le affinità elettive”; a proposito di tale romanzo, Trias nota che: “ le due coppie del romanzo costituiscono “i poli di un gravissimo problema, che riguarda ogni essere umano”. continua affermando che: “il Capitano realizza il patto del soggetto con l’oggetto, non meno passionale di Ottile nel suo amore per Carlotta, media tuttavia la soggettività con la vocazione costruttiva.” E’ questo per Trias il simbolo stesso dell’artista che agisce ed opera all’interno della società, integrato e fattivo: conclude, infatti, che: “il Capitano è come l’architetto e l’ingegnere”, perché costruisce senza lasciarsi dominare dai sentimenti, ma nel contempo senza rinunciare ai sentimenti stessi. E ancora, Tris afferma –con riferimento al personaggio del Capitano- che “in ultima istanza l’opera d’arte, plastica o poetica, compie una sintesi di passione e di produttività, traendo linfa dall’elemento soggettivo, ma plasmandosi concretamente”.
L’attenzione di Trias per quest’opera goethiana si spiega con il significato profondo del romanzo che si incentra tutto sul contrasto tra ragione e sentimento, cercando di trovare un punto di equilibrio tra questi due poli opposti. Infatti, le vicende amorose dominano nella trama delle Affinità, in cui il matrimonio apparentemente stabile tra Edoardo e Carlotta, viene turbato dall’arrivo di Ottilia – la giovane figlia di un’amica di Carlotta ormai scomparsa e che vive in collegio con la figlia nata dal primo matrimonio di Carlotta – e del Capitano, un grande amico di Edoardo. La passione che si accende gradualmente tra Edoardo e Ottilia nella prima parte del romanzo, è speculare e contemporanea a quella tra Carlotta e il Capitano, ed è un mezzo che consente a Goethe di delineare i caratteri dei protagonisti, indagando al tempo stesso l’eterno conflitto tra la ragione e i sentimenti, che determina dinamiche comportamentali differenti a seconda della maturità psichica del soggetto. La coppia Edoardo - Ottilia rappresenta, forse, l’adolescenza dell’essere umano, con i suoi slanci smisurati e appassionati, ma anche la difficoltà di aderire alla realtà modulando gli eccessi, nella consapevolezza che la soddisfazione immediata dei propri impulsi non sempre porta alla felicità, ma possa essere a volte anche il preludio della tragedia.
Carlotta e il Capitano invece, pur consapevoli del sentimento sbocciato fra loro, riescono, con la loro maturità, a gestirlo senza farsi sopraffare, e mantengono quindi la capacità di scegliere tra la destabilizzazione totale, corollario probabilmente inevitabile dell’amore, e la necessità di preservare dalla distruzione i fragili equilibri pre-esistenti, scegliendo la seconda opzione. Al di là dei facili moralismi, che potrebbero portare a una condanna rassicurante e superficiale dei personaggi meno razionali – che sono tuttavia quelli che pagano anche il prezzo maggiore per la loro impulsività – resta, sullo sfondo, il messaggio devastante e sempre attuale - e per certi versi anche salutare nel suo contenuto eversivo - che l’essere umano adulto contenga, comunque, aspetti sia della coppia Edoardo/Ottilia che di quella Carlotta/Capitano, e che, di conseguenza, la tanto agognata mediazione tra le istanze interne pulsionali e la realtà - con l’auspicabile equilibrio psichico che ne deriva – resti, di fatto, a volte assai problematica.
La scissione tra Anima e città si tramuta in un vero e proprio divorzio nella riflessione hegeliana: Hegel, infatti, giunge a teorizzare la “morte dell’Arte” che deve essere intesa non nel senso che non saranno più realizzate opere d’arte , ma nel senso che l’arte ha smarrito la sua funzione: “Lo spirito del nostro mondo odierno appare come al di sopra della fase in cui l’arte costituisce il modo supremo di essere coscienti dell’ Assoluto “, l’ arte “non soddisfa più il nostro bisogno più alto e noi siamo ben oltre il poter onorare in maniera divina e venerare le opere d’arte”(5). Come evidenzia Trias “il nuovo potere che sorge si trova irrimediabilmente separato dal bello. Si fonda sull’ impero dell’ utile, configura un mondo soggetto a regole troppo coercitive, anche troppo serie, perché Bellezza e Arte trovino spazio in alcun altro spiraglio che non sia una zona marginale. La stessa arte, la stessa letteratura, si trova impregnata di coscienza e di sapere, è meno arte che critica d’arte, è, contemporaneamente, opera e riflessione sull’opera, o è opera quanto riflessione sull’opera.
L’arte muore poiché ha smarrito la funzione che aveva nel mondo greco, solo la ragione costituisce fondamento della società moderna: “l’ arte sopravvive a se stessa e trascina la propria esistenza.” Eros appartiene, ormai, al passato, Poiesis domina sovrana e ciò “comporta l’immolazione del mondo della Bellezza” l’artista, confinato alla periferia della città ed estraniato da essa, si chiude nella propria soggettività e “al posto di quel mondo in cui lo spirito si riconosceva nella pietra che intagliava, opera dell’ artigiano, o nell’ inno che cantava, opera del musicista e del poeta, sorge un mondo di un’ altra specie, un mondo trasparente allo spirito, un mondo trasformato esso stesso in spirito, soggettivato, istoriato, umanizzato, carente di sostrato fisico e sensoriale, prodotto dal concetto della scienza” ( 6).
La sintesi tra “Anima e città” si spezza completamente con Nietzsche: qualsiasi rapporto tra “”artista e società,” tra Soggetto e mondo oggettivo viene meno. (7)
Nietzche visse sempre in solitudine, non ebbe alcun rapporto con la “città reale”, come attestano le sue lettere e le liriche da lui composte:
“Il viandante e la sua ombra”
Non più indietro? Non più in alto?
Nemmeno il capriolo ha più sentiero?
dunque aspetto e di qui l’occhio abbraccia
Tutto quel che occhio umano può afferrare
panne di terra, l’ aurora,
E al di sotto di me – mondo – uomini e morte!
(Nietzsche, Poesie e lettere, Barbera editore, 2007,
La lirica riprende alcuni temi presenti nelle opere filosofiche di Nietzsche: la trasvalutazione dei valori – l’ eterno ritorno – l’ oltreuomo; in “Ecce homo”, il filosofo scrive “Conosco il mio destino. Un giorno il mio nome sarà associato al ricordo di qualcosa di prodigioso, - a una crisi, come non ve ne furono mai sulla terra, alla più profonda collisione della coscienza, a un verdetto evocato contro tutto ciò che è stato finora creduto, preteso santificato. Io non sono un uomo sono una dinamite. “ (Nietzsche, Ecce homo, Newton Compton Editori, 1984, p.120). Come osserva Trias “Nietzsche stabilisce sulla propria carne, il desolante cul de sac di un soggettivismo che vuol raggiungere la trascendenza” (E. Trias, ib. P. 126); chiuso entro il cerchio della propria soggettività, Nietzsche respinge qualsiasi possibilità di un rapporto con la città, dominata da istituzioni morali e religiose contro le quali il filosofo scaglia i suoi strali. Ogni rapporto con la “città” è scisso: possiamo individuare il punto culminante di tale scissione nel brano della Gaia Scienza in cui ‘uomo folle” proclama la “morte di Dio;” si tratti di un evento terribile che provoca vertigine e che apre nuovi inesplorati orizzonti: “Noi filosofi e “spiriti liberi” alla notizia che il vecchio Dio è morto , ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’ attesa, - finalmente l’orizzonte torna ad apparire libero … finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele”
La rottura tra artista e società, tra Eros e Poiesis, tra Soggetto e mondo oggettivo “trovano in Thomas Mann il narratore appropriato che ne dà testimonianza nei romanzi, l’arte moderna sembra sancire il divorzio tra “erotismo e fecondità:” se nel Simposio, l’ oggetto di Eros non è solo il possesso della bellezza mediante la contemplazione, ma è la generazione e il parto nel bello; Platone, infatti, per bocca di Diotima, afferma che amare significa procreare e partorire nel bello. I personaggi dei romanzi di Thomas Mann non procreano nel bello, anzi sono avvolti da un’ atmosfera di morte: Hanno muore di tifo, ponendo fine alla dinastia dei Buddenbrook; Aschenbach muore mentre contempla Tadzio “simile ad un’apparizione distante ed irrelata”; Hans Castorp, arruolatosi nell’esercito, forse muore durante il primo conflitto mondiale.
Esemplare è la figura di Aschenbach, protagonista de “ La morte a Venezia”: analizziamo questo singolare personaggio, lacerato da un dissidio interiore che lo porta alla morte. All’inizio del romanzo troviamo Aschenbach in preda ad una crisi di “blocco creativo”: egli sente improvvisamente il desiderio di viaggiare, di visitare luoghi nuovi, di abbandonare la routine di sempre, non riesce a portare a termine il suo nuovo lavoro, non per ostacoli di natura intellettuale, ma per semplice “svogliatezza”. E’ descritto come uno scrittore ben disciplinato, come un “artista paziente”: impasto tra una sobria e disciplinata coscienziosità e impulsi più oscuri e feroci”. E ancora: “ il motto da lui adottato era Perseverare”, “di tutti coloro che lavorano al limite dell’estenuazione, di tutti quei moralisti dell’operosità, che riescono –esasperando la volontà ed amministrandola saggiamente- a sprigionare almeno per un certo tempo una luce di grandezza”, di costoro Aschenbach è il simbolo stesso. Egli è descritto come un uomo che – superata l’irrequietezza giovanile - si è rifugiato in una “rispettabile esistenza borghese”, che – abbandonando la freschezza dei suoi primi scritti - ricorre ad uno scrivere “ufficiale e pedagogico”. Proprio giunto a questa fase della sua vita, Aschenbach decide di abbandonare il suo lavoro e di concedersi un viaggio, non troppo lontano o esotico, perché: l’idea di un vagabondaggio in paesi lontani sembrava talmente scapestrata e sregolata da non meritare seria considerazione. E’ consapevole delle ragioni di questo desiderio: l’ansia di cose nuove e lontane, la sete di sentirsi libero, sciolto da fardelli, dimentico di ogni cosa, altro non erano che un impulso a fuggire, ad abbandonare il lavoro e il luogo ove si dedicava con fredda e ostinata passione al servizio quotidiano. Quindi, fin dalle prime righe è messo in scena il conflitto che lacera Aschenbach: da un lato, la disciplina, il rigore, il determinato controllo delle emozioni e dei sentimenti, che lo portano a dedicarsi all’arte con “fredda e ostinata passione”, dall’altro gli impulsi oscuri e profondi, il vortice di sentimenti inespressi che si affollano nella sua interiorità e che all’improvviso rivendicano il loro diritto ad essere, gettando Aschenbach in una svogliatezza e in un desiderio di evasione indeterminato. E’ la forza della vita e delle passioni che si è risvegliata nel protagonista, quella forza rimasta sopita a lungo sotto il giogo della disciplina e della ragione. E’ una crisi per l’uomo Aschenbach che diventa una crisi anche per l’artista: lontano troppo lontano dalla vita, la sua arte si è inaridita.
Giunto a Venezia, Aschenbach conosce una rapida trasformazione: l’incontro con il giovane Tadzio, adolescente in vacanza con la famiglia al Lido veneziano, lo incanta e lo ammalia, trascinando il suo spirito in un’estasi di gioia. La radice di questa ebrezza è la meravigliosa bellezza del ragazzo, che rapisce l’artista Aschenbach, travolto da un’estasi platonica: più ancora, ciò che egli desiderava era di lavorare in presenza di Tadzio, di prendere la figura del giovinetto a modello del suo scritto, di lasciare che lo stile seguisse le linee di quel corpo che gli appariva divino. Ispirato da Tadzio, Aschenbach porta a termine un suo scritto: rinasce l’uomo, rinasce l’artista. Ma si tratta di una illusione: la Bellezza non può essere afferrata, ma solo contemplata, questa consapevolezza spezza l’animo di Aschenbach, che muore sulla spiaggia, con gli occhi ancora pieni della graziosa immagine del ragazzo. E’ l’artista ad essere sconfitto, prima ancora che l’uomo: Aschenbach all’inizio del romanzo parte per ritrovare quella forza della vita che sentiva esaurita dentro di sé. Ma una volta riscoperte la bellezza e la potenza dei sentimenti, la sua disciplina, il suo controllo non possono più difenderlo ed egli muore travolto e sconfitto dal suo sé stesso più profondo, quel sé stesso che aveva soffocato per anni e che aveva tentato di liberare nel suo viaggio. Il dissidio tra interiorità e vita è troppo forte: l’artista solitario, che si autoesclude dal flusso dell’esistenza è sconfitto.
La morte costituisce metafora del fallimento dei valori , dell’ impossibilità di trovare una sintesi tra Anima e Città: l’ esito finale non può che essere - da un lato - il crollo di un mondo chiuso in se stesso dominato, in modo esclusivo, dalla brama dell’ utile; dall’ altro, l’isolamento dell’ artista rinchiuso nella sua soggettività. Forse Thomas Mann intende dirci che solo con la Morte è possibile accedere alle “pure essenze” trascendenti ed irraggiungibili che solo dopo la morte è possibile contemplare; ma allora il percorso dell’ artista si snoda attraverso una ricerca interiore per giungere là dove dimorano “quella essenza incolore, informe ed intangibile” .
“Quelli che curarono solo ciò che muore, accolse
La terra. Ma essi vanno più prossimi alla luce,
in alto verso l’ Etere. Essi, i fedeli all’amore
dell’ anima, allo spirito divino, sperando,
soffrendo, in silenzio, vinsero il Fato”
(F. Holderlin, Un tempo gli dei camminarono tra gli uomini, in Le liriche, Adelphi, 1977, P. 265)
CONCLUSIONE
La questione del rapporto tra arte e società è stato affrontato negli ultimi anni dal sociologo Bauman, noto per aver coniato la definizione di “società liquida” con riferimento al mondo contemporaneo. La tesi fondante di Bauman, infatti, è quella relativa al crollo nella nostra società di un sistema di valori di riferimento, crollo che ha portato con sé il senso di vuoto e di spaesamento interiore, lasciando gli individui in una condizione “liquida” appunto, priva di forma. Questa condizione si ripercuote sull’arte, che si trova travolta dal consumismo dominante nella nostra società e, quindi, “mercificata” alla stregua di qualsiasi altro oggetto di consumo; l’opera d’arte, inoltre, diventa essa stessa “liquida”, priva di sostanza, come dimostra – a dire di Bauman - la tendenza alle installazioni temporanee, alla video-art, alle performance, tutte forme d’arte che non lasciano traccia di sé nel tempo, fruibili nell’immediato ma non conservabili. Infine, afferma Bauman, l’arte ha perso ogni possibile ruolo di azione all’interno della società, dal momento che si accetta che esista un mondo, quello dell’arte, ribelle, anticonvenzionale, anti conformistico, ma ben rinchiuso entro delimitati cancelli, come un mondo a parte, che in nulla interferisce nella società stessa. Un’arte quindi addomesticata, imprigionata, privata di ogni slancio o forza, un oggetto di consumo come un altro, obbediente alle leggi del mercato e del marketing (Bauman, “La vita liquida”).
La radice ideologica di tali riflessioni è il pensiero di T. Adorno, autore citato dallo stesso Bauman come punto di riferimento; Baumann afferma che proprio un ritorno alle posizioni suggerite da Adorno potrebbe arginare la deriva verso il vuoto esistenziale della nostra società. Del resto, Adorno, esponente di spicco della scuola di Francoforte, e autore de “La dialettica dell’Illuminismo” insieme ad Horkheimer, afferma che nella nostra civiltà domina una razionalità strumentale, basata su di un sapere tecnico-scientifico che ha progressivamente emarginato il sapere contemplativo. La nostra epoca, dunque, secondo Adorno, è dominata da una ragione scientifica, calcolatrice, interessata al rapporto tra mezzi e scopi, da una razionalità, che ha eliminato il pensiero contemplativo con esiti drammatici per l’umanità, perché gli individui diventano asserviti solo alle ragioni della tecnica e dell’utilità e, quindi, producono una società egoistica, funzionale agli interessi solo della grande industria. Sostiene Adorno, infatti, che nella società contemporanea si assiste allo “sfacelo dell’individualità”, perché il sistema si è imposto totalmente sull’individuo, al punto che “nella sua cella più intima l’individuo s’imbatte nella stessa potenza da cui cerca rifugio in se stesso; ciò fa della sua fuga un’illusione senza speranza” (8). Nell’ opera “Meditazioni sulla vita offesa”, Adorno critica i luoghi comuni della società attuale e muove dalla considerazione che, in ogni ambito della vita umana, compresa l’arte, si siano imposte le potenze oggettive dell’economia del consumismo, e del “sistema”, che soffocano l’individualità e la vita stessa dell’uomo.
Le tesi di Adorno sembrano portare nella direzione in cui non è tanto l’artista ad essersi allontanato dalla società, quanto è l’Arte stessa ad essere esclusa nella società attuale o asservita alle regole del consumismo e del conformismo imperante al punto da perdere lo status stesso di Arte per diventare “oggetto”. A tal proposito, si coglie bene la ragione del “ritorno ad Adorno” visto da Bauman come condizione essenziale per un recupero dell’essenza stessa dell’individuo e dell’arte: il vuoto esistenziale della odierna “società liquida”,vale a dire frammentaria e frammentata, infatti, impedisce la ricerca di una “verità universale”, individualmente tradotta dall’artista e collettivamente compresa; secondo Adorno, infatti, le opera d’arte sono espressione oggettivata di una particolare soggettività e, come tali, sono portatrici di verità universali. In conclusione, la base costitutiva dell’arte è il suo essere espressione oggettiva dell’individualità dell’artista, tale processo si annulla in una società –come quella odierna - che ha annullato l’individuo nel sistema.
Analoghe sono le conclusioni a cui giunge Trias: l' arte moderna sancisce “il divorzio tra bellezza e vita, tra erotismo e fecondità; non sussiste più alcun rapporto tra l'artista e la città, è assente qualsiasi tipo di mediazione che possa collegarle” (9)
L' opera di Trias costituisce un' attenta meditazione sul nostro presente dominato dalla frenesia della tecnica e dal convincimento dell' uomo di poter realizzare gli strumenti per un dominio sulla natura in tutti i suoi molteplici aspetti.
Esemplare è l’opera poetica di Federico Garcia Lorca, di cui si riporta un esempio, La Sposa infedele, dove dominano metafore, tratte dal mondo naturale, dove l’eros è rappresentato come stretto congiungimento con l’essere profondo naturale, istintivo, soffocato dalla società tecnocratica ed industriale di oggi, secondo il dettato surrealista che solo l’Eros può rappresentare, vissuto liberamente, l’autentica ribellione all’imperativo utilitaristico e materialistico della civiltà odierna. Un richiamo a riscoprire e vivere attraverso l’immersione nell’Eros la pare primordiale, individuale, autentica del’essere umano, restituendolo all’appartenenza alla Natura.
FEDERICO GARCIA LORCA
La sposa infedele
E io che me la portai al fiume
credendo che fosse ragazza,
invece aveva marito.
Fu la notte di S. Giacomo
e quasi per obbligo,
si spensero i fanali
e si accesero i grilli.
Alle ultime svolte
toccai i suoi seni addormentati,
e di colpo mi s'aprirono
come rami di giacinti.
L'amido della sua gollennina
suonava alle mie orecchie,
come un pezzo di seta
lacerato da dieci coltelli.
Senza luce d'argento sulle cime
sono cresciuti gli alberi,
e un orizzonte di cani
abbaia lontano dal fiume.
Passati i rovi,
i giunchi e gli spini,
sotto il cespuglio dei suoi capelli
feci una buca nella fanghiglia.
Io mi levai la cravatta.
Lei si tolse il vestito.
Io la cintura e la rivoltella.
Lei i suoi quattro corpetti.
Non hanno una pelle così fine
le tuberose e le conchiglie,
né i cristalli alla luna
risplendono di tanta luce.
Le sue cosce mi sfuggivano
come pesci sorpresi,
metà piene di brace,
metà piene di freddo.
Corsi quella notte
il migliore dei cammini,
sopra una puledra di madreperla
senza briglie e senza staffe.
Non voglio dire, da uomo,
le cose che ella mi disse.
La luce dell'intendimento
mi fa essere molto discreto.
Sporca di baci e di sabbia,
la portai via dal fiume.
Con la brezza si battevano
le spade dei gigli.
Agii da quello che sono,
da vero gitano.
Le regalai un grande cestino
di raso paglierino,
e non volli innamorarmi
perchè avendo marito
mi disse che era ragazza
mentre la portavo al fiume.
NOTE
- Trias, L’ artista e la città, p. 12, Casa Editrice Le Lettere, 205;
- Trias, ib., p. 18;
- Trias ib. p. 8 ;
- Platone, Repubblica, Ed. Laterza, 1966;
- Hegel, Estetica, Einaudi 1997, pp. 120 e 44-45.
- Trias ib. p.88;
- T.Mann, Morte a Venezia, p. 81;
- Dialettica dell’illuminismo, p. 258;
- Trias, ib, p.152.
BIBLIOGRAFIA
Adorno- Horkheimer, La dialettica dell’ illuminismo, Einaudi, 1996;
Adorno, Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi;
Bauman, La vita liquida, Feltrinelli;
Chastel A. Arte e Umanesimo a Firenze, Einaudi, 1964;
Garin E., L’ Umanesimo italiano, Laterza, 2008;
Goethe, I dolori del giovane Werther, Garzanti, 1983;
Goethe, Le affinità elettive, Mondadori, 2002;
Goethe, Faust, Feltrinelli, 1965;
Holderlin, Le liriche, Adelphi, 2008;
Nietzsche, Ecce Homo, Newton Compton, Adelphi, 1984;
Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, Adelphi, 1984;
Platone, Fedro, in tutte le opere, Laterza, 1966;
T. Mann, Morte a Venezia, Oscar Mondadori, 1988;
Trias, L’artista e la città, Le Lettere, 2005.