Vico: "La scienza nuova"
VICO: “LA SCIENZA NUOVA”
NOTAZIONI BIOGRAFICHE
Vico nacque a Napoli nel 1668; il padre era un modesto libraio. A sette anni cadde da una scala e riportò gravi ferite tanto che si temette che non potesse sopravvivere; Vico attribuì grande importanza a tale episodio, considerandolo quale causa della sua "propensione" alla melanconia.
A dieci anni frequentò la scuola di grammatica e di umanità, successivamente, si iscrisse al collegio dei Gesuiti dove studiò filosofia; lasciato il collegio, dapprima lavorò nella libreria paterna, quindi nel 1686 nello studio legale di Fabrizio del Vecchio; nello stesso anno il padre fu chiamato in giudizio da un altro libraio, Vico difese il padre che vinse la causa. In questa occasione, conobbe Geronimo Rocca che gli offrì l'incarico di precettore dei quattro figli del marchese Rocca Domenico, rimasto vedovo. Il marchese viveva, prevalentemente, nel castello di Vatolla, nel Cilento; Vico accettò l'incarico e soggiornò nella dimora del marchese fino al 1695, potè utilizzare la ricca biblioteca del marchese e studiare Platone, Aristotele, Tacito, Agostino, Dante e Petrarca.
Nel 1689 s'iscrisse all' Università ed entrò il relazione con Giuseppe Valletta e con alcuni adepti del gruppo degli "ateisti;" dopo aver conseguito la laurea, nel 1695 tornò a Napoli dove ottenne, presso l' Università, la cattedra di retorica, rimasta vacante dopo la morte del titolare Giuseppe Toma. Nello stesso anno, Vico sposò Caterina Destito, donna analfabeta, dalla quale ebbe otto figli.
Furono anni decisivi nell'itinerario culturale di Vico: si delinea più nettamente la sua posizione critica verso il cartesianesimo: nelle "Orazioni inaugurali", composte tra il 1699 ed il 1708, esprime il proprio dissenso rispetto alle nuove correnti filosofiche; in particolare, nell' Orazione pronunciata nel 1708 "Del metodo degli studi del nostro tempo", pubblicata a sue spese, critica il pensiero cartesiano ed anticipa alcune tesi per una corretta interpretazione della storia, tesi che saranno poi sviluppate nella "Scienza Nuova." Nel 1710 pubblica il "De antiquissima Italorum sapientia ex lingua latina originibus eruenda;" quest' opera doveva essere costituita da tre libri dedicati alla metafisica, alla fisica ed alla morale, ma venne composto solo il primo libro.
Nel 1723 partecipò al concorso per la cattedra di Diritto romano presso l'Università di Napoli - facoltà di maggior prestigio e più vantaggiosa sul piano economico, - ma il suo lavoro non venne accettato e Vico dovette rinunziare alla cattedra. Tra il 1713 ed il 1719, Vico studiò le opere di Grozio, quindi compose la prima parte dell' "Autobiografia" che fu pubblicata nel 1728, mentre la seconda parte, terminata nel 1731, venne pubblicata solo nel 1818.
Vico dedicò alla stesura della sua opera principale "La Scienza Nuova" circa vent' anni: nel 1725 vi fu la prima Edizione, quindi Vico procedette a riscrivere interamente l'opera apportandovi numerose correzioni, e modifiche; nel 1730, si ebbe una seconda edizione; infine nel 1744 si ebbe una terza edizione che, sostanzialmente, riprende quella del 1730 con correzioni e miglioramenti.
Vico muore il 23 gennaio 1744 a Napoli.
Vico ebbe un'esistenza povera ed oscura: visse sempre nelle ristrettezze economiche, lo scarso stipendio (cento ducati annui) e la famiglia numerosa (ebbe otto figli), lo costrinsero a tenere lezioni private, sia in casa sua, sia recandosi nelle case altrui per insegnare grammatica. La moglie era analfabeta e, secondo il Croce, "incapacissima di curare le più piccole faccende domestiche" (1), di salute malferma, debole da giovane, fu colpito nella vecchiaia da ulceri alla gola, da dolori alle cosce e alle gambe; angustiato da un figlio insofferente di ogni disciplina, accettò di compiere i più umili doveri. La sua opera ebbe scarsi riconoscimenti e, praticamente, fu ignorata in Europa, anche se Vico inviò esemplari delle sue opere ai letterati di Napoli, a quelli di Roma, Pisa, Padova, e pure in Germania, in Olanda ed in Inghilterra a Isacco Newton; ebbe solo qualche rado "lodatore" come il cappuccino padre Giacco che lodava "la rara sublimità delle meravigliose divine idee," ma, secondo Croce, è dubbio che avesse inteso le dottrine di Vico.
Nella sua opera "La Scienza Nuova," Vico, sia pure non esplicitamente, pone in dubbio la trascendenza divina, ma ciò non significa che abbia mai polemizzato, in modo diretto con la Chiesa; sul piano personale professò, sempre la religione cattolica e sottomise sempre i suoi scritti "alla doppia censura pubblica e privata degli amici ecclesiastici"(2). Forse, in gioventù, frequentando i coetanei definiti "epicurei" e "ateisti" fu travagliato da dubbi religiosi : in una lettera del 1720 indirizzata a padre Giacco, scrive che in gioventù commise "debolezze ed errori"; ma non sussiste alcuna certezza al riguardo. Vico, in effetti, non assunse mai, in modo esplicito, un atteggiamento simile a quello di alcuni filosofi del Cinquecento come Bruno e Campanella che egli, anzi non nomina mai. In modo analogo, si astenne dal partecipare alle controversie politiche e, in particolare, alle polemiche che opposero il regno di Napoli alla Chiesa; come scrive Croce "La vita politica stava al di sopra del suo capo, come il cielo e le stelle ed egli non si protese mai nel vano sforzo di attingerla"(3).
QUADRO STORICO - CONTESTO CULTURALE
I mutamenti politici verificatesi tra la fine del '600 e la prima metà del XVIII secolo favorirono il diffondersi delle nuove idee che circolarono più intensamente nel Regno di Napoli, dopo che, nel 1734, assunse la corona del Regno Carlo III di Borbone; gli intellettuali si dedicarono, soprattutto, a ricerche relative ai temi delle riforme economiche e sociali e del giurisdizionalismo. Centro della vita culturale fu la cattedra di economia politica tenuta da Antonio Genovesi (1713 - 1769), che si occupò di studi economici e sostenne che, in uno Stato, occorre razionalizzare la produzione agricola e manifatturiera per soddisfare i bisogni della popolazione; teorizzò, inoltre, la necessità di attuare una politica liberistica e di modernizzazione della società. Al Genovesi si riallacciano alcuni studiosi tra cui il Filangeri (1753 - 1788) che, nella sua opera "La scienza della legislazione", (la morte impedì il completamento dello scritto, che si arresta al quinto dei sette libri previsti) analizza quali siano gli ostacoli allo sviluppo economico e civile del Regno di Napoli e suggerisce le possibili soluzioni che possono essere adottate, soprattutto, sul piano legislativo. Notevole fu l'impegno giurisdizionalista di Pietro Giannone (1676 - 1748) autore della "Storia civile del Regno di Napoli;" Giannone non solo dimostra che sono infondate le pretese di superiorità sul potere politico sostenute dalla Chiesa, ma anche sostiene la validità del potere assoluto del sovrano, poichè, in tal modo, possono essere conciliati gli opposti interessi che si manifestano all'interno della società e può essere garantito il bene delle comunità.
Vico ebbe scarsi rapporti con gli studiosi contemporanei visse, come evidenzia Croce, "nell' incomprensione e nell'indifferenza", comunque conobbe le opere di Bacone, Cartesio, Hobbes, Gassendi e Grozio; polemizzò contro il pensiero cartesiano e rifiutò la teoria del cogito; ma tale polemica, non può va intesa come una "chiusura" di fronte alle nuove idee; Vico intende percorrere una via diversa di ricerca volta a individuare come sia possibile attuare una visione scientifica della storia, settore che Cartesio aveva trascurato, totalmente, avendo rivolto i propri interessi alla fisica ed alla matematica. Nella sua "Autobiografia", Vico indica quattro autori che occupano un posto fondamentale nella sua formazione: Platone, Tacito, Bacone e Grozio: il primo delinea la storia come deve essere e gli ha suggerito che tutte le vicende storiche possono essere riferite ad una "storia ideale eterna", il secondo analizza le tradizioni, i costumi e gli usi che caratterizzano un popolo, evidenziando come le diverse società si differenzino tra loro e descrive l'uomo quale è, il terzo gli ha fatto comprendere come la storia possa essere una scienza della quale occorre scoprire le leggi; infine Grozio gli ha fatto intuire che è possibile analizzare in modo scientifico il mondo degli uomini. Vico interpreta i quattro autori nel senso che Platone ricerca il vero; Tacito tiene conto dei fatti; Bacone tenta una sintesi di vero e di fatto, ma la sua visione empiristica costituisce un ostacolo a cogliere l' universale; infine Grozio riconduce le ricerche particolari, relative al diritto, ai principi universali del giusnaturalismo, attuando, per quanto attiene il settore del diritto, una sintesi di vero e fatto, cioè tra i principi universali e l' analisi delle vicende storiche particolari; detto in modo diverso, è possibile una sintesi tra filosofia e Filologia.
I PRINCIPI DELLA "NUOVA SCIENZA"
Già nella prolusione pronunziata nel 1708 Vico sostiene che la storia si configura come scienza; nel successivo scritto "De antiquissima Italorum sapientia" - pubblicato nel 1710 - Vico ricostruisce l'antica sapienza italica attraverso l'analisi filologica della lingua latina ed enuncia il principio "verum ipsum factum", principio che costituisce il fondamento della "Scienza Nuova." In polemica con Cartesio, Vico ritiene che non sia possibile una "scienza deduttiva della natura", poichè solamente Dio, che ha creato il mondo, può conoscerlo, l'uomo, invece, può conoscere scientificamente la storia che lui stesso ha prodotto. Vico considera, quale verità evidente, che questo mondo civile è stato fatto dagli uomini secondo la loro mente; pertanto, dall'esame di ciò che una civiltà ha prodotto, è possibile "ricostruire" la mentalità degli uomini di quell'epoca. Le istituzioni, i commerci, le leggi, i costumi, i linguaggi sono create dall' uomo. Secondo Vico, pertanto, possiamo conoscere il mondo della storia, essendo opera degli uomini; la storia, quindi, costituisce quella "nuova scienza" di cui l'uomo può conoscere i principi costitutivi universali ed eterni, e che deve essere "costruita" secondo il metodo deduttivo. La filosofia ha il compito d'individuare le leggi universali del processo storico, ma non è sufficiente conoscere quali siano le leggi universali che sottendono la storia delle diverse civiltà, occorre anche condurre un'indagine filologica relativa ai costumi, alle tradizioni, alla lingua dei vari popoli. Filosofia e filologia sono strettamente correlate: la prima individua le leggi universali della storia, la seconda ricerca quali siano stati i fatti, le scelte compiute dall'uomo. La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l' autorità dell' umano arbitrio, onde ne viene la coscienza del certo. Il vero può essere conosciuto in modo scientifico, poichè è universale, il certo, invece, si riferisce a ciò che è contingente, ai fatti concreti frutto della scelta umana che è libera come dimostra la varietà dei costumi e delle istituzioni.
L’indagine storica, quindi, si snoda secondo due modalità strettamente interconnesse: quella filosofica che ha come oggetto il vero e quella filologica relativa al certo. La filosofia contempla con la ragione onde viene la scienza del vero e consente di individuare le leggi generalissime che costituiscono il fondamento del processo storico; la filologia considera l'autorità dell' umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo è, quindi, rivolta alla raccolta dei documenti relativi agli eventi che si sono verificati. La "Scienza Nuova", pertanto "viene nello stesso tempo a descrivere una Storia Ideale Eterna, sopra la quale corrono un tempo le Storie di tutte le Nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati e decadenza"4). Per condurre una ricerca storica in modo scientifico occorre prima liberarsi dagli "idola" presenti alla nostra mente occorre, in particolare, liberarsi dalla "boria delle nazioni", per cui un popolo si considera più nobile rispetto agli altri, e dalla boria dei dotti che cercano documenti del passato come conferma del loro modo di pensare.
La filologia considera l'autorità dell' umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo è, quindi, rivolta alla raccolta dei documenti relativi agli eventi che si sono verificati. La "Scienza Nuova", pertanto, descrive una Storia Ideale Eterna, sopra la quale corrono le Storie di tutte le Nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, fini, e decadenza". Per condurre una ricerca storica in modo scientifico occorre prima "liberarsi" dagli "idola" presenti alla nostra mente; occorre, in particolare, liberarsi dalla "boria delle nazioni" per cui un popolo si considera più nobile rispetto agli altri, e dalla boria dei dotti che cercano documenti del passato come conferma del loro modo di pensare.
LE ETA' DELLA STORIA
Vico sostiene che la storia ideale è costituita dal succedersi di tre età: degli dei, degli eroi e degli uomini, schema già teorizzato da Esiodo e da Platone; Esiodo ne "Le opere e i giorni" distingue cinque età: dell' oro, dell' argento, del bronzo, degli eroi e degli uomini. L'età dell'oro si colloca ai tempi di Kronos, quando gli uomini vivevano felici, senza mai invecchiare o ammalarsi, la terra forniva loro nutrimento in abbondanza. Tale età finisce bruscamente e gli uomini dell'età dell'oro sono trasformati in demoni che vivono sulla terra in aiuto degli uomini mortali; segue l'età dell'argento, gli uomini sono violenti e ribelli alle leggi; per tale ragione Zeus li annienta. Si passa all'età del bronzo, dove gli uomini amano la guerra, sono feroci e crudeli; quindi, segue l'età degli eroi e, successivamente, l'età degli uomini, dominata dalla ragione.
Platone, nel "Crizia", distingue tre età: l'età degli dei, quando gli dei popolavano la terra e "dopo averle popolate nutrivano noi, lor possesso e prole, come i pastori il bestiame: però non costringevano i corpi con la forza dei pastori, che traggono al pascolo il bestiame con le percosse, ma, com' è l' uomo un animale docilissimo, dirigendo quasi dalla poppa di una nave, secondo la loro volontà, e adoperando come un timone la persuasione per muovere gli animi"(5). Analogamente, nel Politico, Platone afferma che un tempo gli dei guidavano gli uomini e che, sotto persuasione per muovere gli animi, reggevano così tutto il genere mortale" quella guida non erano necessarie costituzioni di stati. Gli uomini si cibavano di ciò che la natura offriva, vivevano all' aria aperta la maggior parte del loro tempo e avevano "teneri giacigli fatti con l' erba che cresceva dalla terra senza senza limitazioni" (6). Segue l' età degli eroi che nacquero nell' Attica governata da Athena e Efesto e l' età degli uomini che, occupati a soddisfare i loro bisogni, hanno dimenticato la tradizione eroica .
Secondo Vico, la storia non è un "succedersi di avvenimenti", ma è una Nuova Scienza, che si basa su una legge fondamentale: la storia è fatta dagli uomini e si possono individuare i principi nella mente umana che è simile per tutti gli individui, poichè presso tutte le Nazioni si possono individuare le medesime strutture fondamentali: la religione, il matrimonio e la sepoltura dei defunti.
Vico sostiene che la storia si sviluppa secondo tre fasi analoghe a quelle dello sviluppo della mente umana, secondo un percorso ascendente: come l'individuo passa dall'infanzia, all'adolescenza, alla maturità, così la storia si snoda secondo tre fasi: l'età degli dei, l'età degli eroi l'età degli uomini: "gli uomini prima sentono senz' avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura." Nell' età degli dei, gli esseri umani che, in origine, erano orribili bestioni, di fronte alla potenza delle forze naturali che costituivano una minaccia, credettero che fossero emanazione delle divinità terribili e punitrici e per timore degli dei, dominarono i loro impulsi , crearono le famiglie, i primi ordinamenti e seppellivano i morti; segue l' età degli eroi cominciano a costituirsi le città governate dalle classi aristocratiche che esaltavano le virtù della temperanza e dell' eroismo; infine, nell' età degli uomini, domina la ragione. Vico definisce le due prime età "poetiche" e sono caratterizzate dalla fantasia, la terza è caratterizzata dalla razionalità; ma ciò non significa che, secondo Vico, sia possibile un progresso continuo; infatti gli uomini, giunti alla terza età, cadono in un processo di decadenza e di regresso, per cui si verifica un ritorno allo stadio iniziale; i corsi ed i ricorsi storici si susseguono, secondo Vico, il primo ricorso si è già verificato dopo il crollo dell'impero romano ed il ritorno barbarico del Medioevo.
I cicli si ripetono per quanto attiene la "struttura logica", ma non per quanto riguarda il succedersi degli eventi, i cicli non si ripetono con la medesima sequenza di contenuti e non si sviluppano in modo omogeneo in tutte le civiltà che possono procedere dall'una all'altra in momenti diversi.
La teoria dei "corsi e ricorsi storici" implica una diverso concetto del tempo rispetto alla visione cristiana: infatti, per il cristianesimo il tempo della storia ha un andamento lineare, ha inizio con la creazione e termina con il "Giudizio universale" quando verrà pronunziato l' ultimo giudizio. Secondo Vico, il tempo della storia ha un andamento circolare, già teorizzata dagli Stoici, ma ha uno svolgimento diverso: non si verificano gli stessi eventi, non vivono i medesimi individui, gli eventi sono diversi e mutano continuamente. Ogni civiltà attraversa le tre età; il ciclo si ripete, secondo il medesimo ritmo, ma con contenuti diversi; dopo il crollo dell' impero romano, crolla una forma di civiltà evoluta in termini giuridici, culturali, socio-economici, ma la religione cristiana segna l' inizio di un nuovo incivilimento, ha umanizzato la cultura barbarica e avvicinato le popolazioni barbariche alla tradizione romana; successivamente, con il feudalesimo, si afferma la civiltà guerriera; infine, con l'Umanesimo e il Rinascimento si afferma l' età della ragione. Tale modello, secondo Vico, consente di fornire una corretta interpretazione del processo storico e di valutare gli eventi storici secondo una visione complessiva e non secondo i singoli eventi. La distinzione delle tre età non deve essere intesa in modo meccanico e rigido; secondo Vico la fantasia caratterizza sia l'età degli dei che quella degli eroi; pertanto vi è affinità tra la prima e la seconda età. I primi uomini erano stupidi, goffi, insensati, essi sentivano senza riflettere e consideravano le forze della natura quali manifestazioni di divinità terrificanti e punitrici; per timore della divinità, sorsero le prime forme di religione e, per frenare gli impulsi bestiali, furono costituite le famiglie ed i primi ordinamenti civili. Vico evidenzia che tutte le Nazioni hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; si tratta di costumi eterni ed universali, presenti in tutte le società umane, fondamento della vita civile. Alle tre età corrispondono tre tipi di ordinamenti politici: governi teocratici nell' età degli dei, fondati sul timore delle divinità; governi aristocratici nell' età degli Eroi quando la classe aristocratica faceva derivare dalla divinità le sue origini; infine, governi o repubblicani o monarchici nell'età degli uomini, quando si riconosce l'uguaglianza di tutti davanti alla legge; Vico distingue pure tre tipi di diritto: divino, eroico, diritto umano.
Vico non accetta la teoria del diritto naturale teorizzata da Grozio e dagli altri giusnaturalisti che identificano "naturalità e razionalità;" secondo Vico nella società primitiva dominava il diritto della forza: "uomini superstiziosi e fieri ch' estimano la divinità dalla forza e non già dalla ragione, estimeranno altresì per cotal diritto divino giuste le vittime ...promesse in voto a dei vittoriosi". Lo "stato ferino" teorizzato da Vico è simile allo "stato di natura" di cui parla Hobbes, infatti, secondo il filosofo scozzese, lo stato di natura è caratterizzato dalla condizione di guerra di "tutti contro tutti" non esiste alcun diritto nemmeno quello della conservazione della vita: ogni uomo è nemico ad ogni uomo, Non ci sono testimonianze di un approccio diretto all' opera di Hobbes da parte di Vico; pertanto si può solo ipotizzare una influenza indiretta. Secondo Vico, solo nell' età degli uomini, quando si riconosce che tutti sono uguali, essendo dotati di ragione, si riconosce un diritto eterno e proprio degli uomini. Vico, pertanto, delinea uno sviluppo storico del diritto: agli albori del genere umano, prevaleva una libertà sfrenata, ed era affermato il diritto del più forte; solo, successivamente, quando vennero i tempi della "ragione umana tutta spiegata," furono elaborate norme giuridiche che hanno regolato le passioni e reso più miti i costumi.
Vico rifiuta l'astrattatismo dei giusnaturalisti che ritengono il diritto naturale superiore al diritto positivo; secondo Grozio, considerato il fondatore del giusnaturalismo, i diritti naturali derivano dalla stessa natura umana, in quanto l' uomo è dotato di ragione e devono essere posti a fondamento della legge positiva. Vico, invece, ritiene che, un tempo, gli uomini fossero esseri feroci, dominati dalle passioni e che solo quando lo stato ferino è stato superato, sorse il diritto umano dettato dalla Ragione .
LA LEGGE DEI CORSI E DEI RICORSI STORICI
Vico ritiene che la legge dei corsi e dei ricorsi storici costituisca una legge universale che interessa tutte le civiltà; il corso che compiono le nazioni, si riprone sempre allo stesso modo: ad un'epoca di barbarie, segue l'età degli eroi, quindi l'età degli uomini; infine, il declino e la decadenza. Si ripercorre, quindi, il medesimo ciclico ma con contenuti diversi; Vico esemplifica tale legge con riferimento alla storia di Roma che, dopo aver conseguito l'apice in età imperiale, decadde e si dissolse; gli uomini precipitarono nella barbarie, ma "i tempi barbari ritornati" non sono identici alla primitiva barbarie; analogamente, l'età degli Eroi identificata con il Feudalesimo e l' età degli uomini, che si afferma con il Rinascimento, sono caratterizzati da istituzioni giuridiche, costumi diversi dai precedenti. Inoltre, non tutte le Nazioni compiono l'intero percorso: alcune si fermano all'età degli dei, altre all'età eroica, alcune, giungono all'ultima età come l'America che, in seguito alla scoperta è giunta, subito, all'età degli uomini. Infine, non necessariamente tutte le Nazioni si corrompono; infatti, è possibile cercare dei rimedi che ostacolino la decadenza, come affidare il potere ad un monarca che eserciti un governo assoluto.
Il modello creato da Vico delinea un processo razionale della storia che non è più considerata come un susseguirsi di eventi slegati tra loro e spesso contradditori. Il corso della storia si snoda secondo una legge generale che consente di interpretare i singoli fatti, inserendoli in un quadro unitario; tale processo, però, non è soggetto ad alcuna necessità, l' uomo è libero nelle sue scelte.
La visione razionalistica della Storia proposta da Vico riprende il modello tacitiano: Tacito, infatti, riallacciandosi al modello di Tucidide, concepisce la storiografia come ricostruzione razionale e documentata dei fatti, condotta secondo i criteri scientifici dell'oggettività e dell'obiettività, come riferisce Vico, sia negli Annales, sia nelle Historiae. Tacito afferma che "chi professa incorrotta fedeltà al vero" ognuno deve parlare “senza amore e senza odio (neque amore sine odio)."
E' opportuno ricordare tra la fine Cinquecento ed il Seicento, si sviluppa un' ampia riflessione sul rapporto tra sfera politica e sfera etico-religiosa;; partecipano al dibattito importanti studiosi quali Tiziano Boccalini (La pietra del paragone politico 1613) e Torquato Accetto (Della dissimulazione onesta, 1641). Al centro si pone la problematica relativa al rapporto tra utile e morale, già trattata da Machivelli nel “Principe", Vico non affronta questo dibattito in quanto, ritiene che la storia, secondo il modello di Tacito, sia un percorso razionale, conoscibile e interpretabile; lo storico si interroga, non tanto sullo scopo delle singole azioni umane, quanto sullo scopo ultimo della Storia: è il grande tema della Provvidenza.
LA PROVVIDENZA
Tutto l'edificio della "Scienza Nuova" è' costruito sull'assunto che gli uomini hanno costituito "il mondo delle Nazioni"; ma l' uomo può operare per un tempo limitato e secondo fini particolari, inoltre non poteva sussistere intenzionalità nell'agire umano agli inizi della storia, quando gli uomini erano "bestioni" dominati dal senso, per risolvere tale problema, Vico pone una "Mente" eterna ed infinita, superiore ai fini particolari che gli uomini perseguono, quale "architetto del mondo delle Nazioni." L'uomo, quindi, agisce quale "fabbro" del mondo delle nazioni, mentre l'architetto divino pone un piano ideale eterno, una legge razionale, per cui i fini particolari che gli uomini perseguono, sono mezzi di fini universali. Secondo Vico, la storia non è dominata dal caso o dal destino, è opera dell' uomo, ma l'agire umano s'inscrive in un piano razionale posto dalla Provvidenza; il filosofo esemplifica in molteplici modi tale concetto: gli uomini primitivi portarono le femmine nelle grotte, credendo di poter sfogare la loro libidine lontano dallo sguardo divino, ma in tal modo si costituirono le prime famiglie e i matrimoni; crearono fortificazioni per difendere se stessi e le loro famiglie, ma così, si pose fine alla vita nomade e appresero a coltivare i campi.Tali esemplificazioni non vanno intese in senso utilitaristico, ma come mezzo per evidenziare che sussiste un ordine razionale al di sopra dell' agire umano. Tale ordine fornisce senso al processo storico, senza che venga meno la libertà umana; il piano provvidenziale non determina l'agire umano: l'uomo è libero nelle sue scelte e, quindi, ne è responsabile.
La visione di Vico, ricorda il mito platonico di Er: le anime che devono reincarnarsi, dopo essersi riunite in un "luogo meraviglioso," si mettono in cammino e, al quarto giorno giungono presso il trono di Ananke sulle cui ginocchia ruota il fuso dell' universo; accanto a lei si trovano le tre Parche: Cloto (il presente), Lachesi (il passato), Atropo (il futuro). Le anime si presentano davanti a Lachesi e un "araldo divino" dopo aver preso, dalle ginocchia di Lachesi, le sorti e vari tipi di vita, si rivolge alle anime dicendo: "Parola della vergine Lachesi sorella di Ananke. anime dall'effimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale...non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliervi il demone..........La virtù non ha padrone; secondo che la onori o la spregi, ciascuno avrà più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile." (7). Vi è una legge suprema che governa il mondo, ma Platone riconosce all'uomo la libertà e la capacità di scegliere e, quindi, è responsabile delle scelte compiute. La libertà appartiene all' essere umano in quanto tale e, anche se non possiamo scegliere il luogo ed il tempo della nascita, tuttavia l'uomo non è soggetto ad un destino predeterminato.
Il pensiero di Vico, per quanto attiene il problema del ruolo della Provvidenza divina. ha avuto molteplici interpretazioni: la lettura più seguita è quella che interpreta la teoria di Vico secondo la visione cristiana; Croce ha proposto un' intepretazione di tipo idealistico ed ha sostenuto che tutta la filosofia di Vico non fa altro che ridurre il trascendente all'immanente; secondo un'altra intepretazione la Provvidenza è trascendente come norma ideale, ma il corso degli eventi non si adegua mai perfettamente; gli uomini non hanno la possibilità di conoscere l'intero piano della storia e, quindi, decidono e scelgono in base ai bisogni ed alle circostanze immediate; mentre il dipanarsi della storia, pur svolgendosi nel tempo, tende ad un ordine universale.
Si può, anche, presumere che Vico consideri la Provvidenza divina quale fine ultimo del processo storico, per cui i fini particolari che gli uomini cercano di raggiungere, s'inseriscono in un quadro universale: la storia ideale eterna sottende a tutto il processo storico; ma secondo Vico, ciò non significa che la Providenza sia immanente nella storia umana, perchè, in questo caso, la storia umana si modellerebbe su quella divina; non è neppure trascendente, nel senso che il piano provvidenziale indirizza "dal di fuori" la storia umana, è trascendente come "norma ideale" che non è mai compiutamente attuata dal corso degli eventi.
Secondo altre interpretazioni Vico, lasciò che le sue teorie fossero interpretate in senso cattolico per salvaguardare la propria opera; il Niccolini conferma che, quando venne pubblicato, nel 1720, lo scritto il "Diritto universale" nel quale Vico affrontava il tema dell'origine delle religioni, sorsero voci critiche ed avverse. Già precedentemente, nel 1693, nel, regno di Napoli, si tennero processi innanzi al Sant' Uffizio di giovani letterati e scienziati napoletani accusati di epicureismo o "ateismo”, dagli atti del processo si può desumere che erano "amici" di Vico (il matematico De Cristofaro - il letterato Giannelli - il giurista Galizia).
Tali vicende, forse, convinsero Vico che, per difendere la sua opera era opportuno, cercare degli "accomodamenti" con le autorità ecclesiastiche ed evitare qualsiasi polemica in merito a questioni molto delicate quali l'origine delle religioni e il rapporto tra la Provvidenza divina e gli uomini. Ma tali ipotesi non trovano riscontro documentario e potrebbe essere azzardato tranne delle conclusioni affrettate. Si può ritenere che Vico intenda la Provvidenza in senso trascendente, ma non come "interventi miracolosi" della Provvidenza nelle vicende umane, bensì come "fine ultimo", come "norma ideale" alla quale gli eventi della storia umana non potranno mai adeguarsi. Si potrebbe, pertanto, intendere il discorso di Vico in senso platonico: le idee sono il fine ultimo a cui tende la conoscenza e sono, contestulamente, presenti alla nostra mente come ricordo di ciò che l'anima ha contemplato prima d'incarnarsi nel corpo per cui è possibile sciogliersi dalle catene che ci costringono a stare al buio nel profondo della caverna ed ascendere lungo un' erta ripida e faticosa, uscire dalla caverna e contemplare il Sole. Ciò non implica che Vico teorizzi il progresso come un processo razionale e continuo, è sempre possibile che si verifichino situazioni di decadenza, di arresto del processo stesso,di un ritorno a situazioni precedenti. L'idea del progresso inarrestabile è aliena al pensiero vichiano; la visione della storia non è né ottimistica, né pessimistica, ma, piuttosto è una visione drammatica dove ha posto l'errore, il male, le passioni che travagliano gli uomini.
POESIA E MITO
Delle tre età della storia - età degli dei, età degli eroi, età degli uomini -Vico ha indagato, in modo particolare la prima e la seconda; Vico pone un parallelismo tra le fasi dello sviluppo umano: infanzia, adolescenza, maturità ed il processo storico. Vico, infatti, sostiene che come ogni età dell' uomo è caratterizzata da una diversa facoltà, analogamente in ogni età della storia l'uomo opera secondo diverse facoltà: come nell' infanzia prevale la fantasia, così nei primi uomini prevale questa facoltà. Gli uomini "del Mondo fanciullo" per natura furono sublimi poeti, e la poesia, alle cose insensate, dà "sensi e passione." (8); come osserva Benedetto Croce,Vico considera la poesia quale "prima forma della mente anteriore all'intelletto e libera da riflessioni e raziocinio" . La poesia costituisce la forma tipica dell'infanzia dell'umanità e può essere considerata "la prima operazione della mente umana" (9) quando gli uomini non erano ancora capaci di condurre ragionamenti sensati.
Vico identifica la poesia con il mito ed è persuaso che i miti non siano favole o allegorie, ma costituiscano "verità storica," nella forma che la verità storica suol prendere nella mente primitiva: "Il mito non è favola ma storia, quale possono formarsela gli spiriti primitivi, e da questi severamente tenuta come racconto di cose reali" (10).
L' interpretazione del mito fornita da Vico, ha avuto ampio sviluppo in epoca romantica e nel corso del XIX e del XX secolo, oltre che in campo filosofico, anche in quello letterario e psicoanalitico; nel Settecento gli Illuministi, invece, pur ammettendo che fosse possibile considerare il mito cone un' introduzione alla storia dell' antichità, considerano i miti caotici e confusi sul piano razionale e ritengono che i miti siano favole piene di assurdità, confuso miscuglio delle chimere dell' immaginazione. La visione vichiana e quella illuministica, sono, quindi, antitetiche: mentre gli Illuministi ritengono che i miti e le espressioni poetiche degli antichi uomini non siano altro che superstizioni ed errori vanificati dalla ragione e dalla ricerca scientifica, Vico reputa che i miti e le poesie costituiscano una particolare modalità conoscitiva e che, la sapienza degli antichi trovi espressione nella poesia e nei miti : "la Sapienza degli Antichi fu quella de' Poeti Teologi, i quali senza contrasto furono i primi Sappienti" ( 11) “origini delle cose tutte debbono per natura essere rozze, dobbiamo per tutto ciò dar incominciamento alla Sapienza Poetica da una rozza lor metafisica dalla quale, come da un tronco si diramino per un ramo la Logica, la Morale, l' Economia, e la Politica tutte Poetiche; e per un altro ramo tutte eziandio Poetiche, la Fisica, la quale sia stata madre della loro Cosmografia, e quindi dell' Astronomia; che ne dia accertate le due sue figliole, che sono Cronologia e Geografia" (12).
Vico riprende dalla tradizione filosofica la metafora dell' albero del sapere (metafora usata anche da Cartesio): la metafisica costituisce le radici, il tronco si divide in due rami: da un lato il ramo delle "scienze pratiche" dall' altro le "scienze teoretiche;" sono presenti, però importanti varianti: secondo Vico logica e linguaggio coincidono, la "Sapienza poetica" intesa quale "rozza metafisica" concepita dai "poeti teologi" costituisce le "radici" dell' albero, infine tutte le scienze sono considerate non oggettivamente per il loro campo d'indagine, ma quali prodotti dell' uomo e, quindi, storicamente situate. La ricerca storica, pertanto, deve tener conto della mentalità, dei costumi e delle tradizioni di un popolo, lo storico non deve indagare e valutare il passato secondo la sua mentalità, ma secondo le caratteristiche proprie di ogni epoca; occorre cioè, abbandonare la "Boria delle nazioni" per cui ognuna stima di essere "la prima del mondo" e la "Boria dei dotti" che vogliono trovare negli antichi documenti delle analogie con il proprio pensiero; occorre, quindi, che "da si fatti Primi Uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i Filosofi e Filologi dovean cominciare a ragionare la Sapienza degli antichi Gentili" (13).
LA POESIA QUALE FORMA D' INCIVILIMENTO
I primi "Poeti Teologi" crearono la prima favola divina relativa a Giove, Padre degli uomini e degli Dei, che manifestava la sua ira mediante i fulmini; tale immagine suscitava talmente timore che gli stessi Poeti che l'avevano immaginata, la credettero vera per cui riverirono ed onorarono la divinità. La fantasia e l' immaginazione dominavano gli esseri umani tutti credettero che Giove esistesse e che tutte le cose fossero "piene di Giove"; i fenomeni atmosferici furono ritenuti il linguaggio con il quale il "Dio" parlava agli uomini e, immaginando tale divinità, diedero una spiegazione dei fenomeni della "Natura" considerati quali manifestazione del "Dio: "tali uomini tutto ciò che vedevano, immaginavano....credettero essere Giove; ed a tutte le parti dell' Universo di cui potevano essere capaci, diedero l' essere di sostanza animata" .
Vico, per suffragare le sue tesi, cita Tacito il quale, negli Annales, afferma: "mobiles ad superstitionem perculsae semel mentes, sibi aeternum laborem portendi, sua facinora aversari deos lamentatur" - una volta che gli uomini sono sorpresi da una spaventosa superstizione, a quella richiameranno tutto ciò ch' esse immaginano, vedono ed anche fanno". La religione, pertanto, ha - secondo Vico - un' origine umana e ciò vale per tutti i popoli, ad eccezione del popolo ebraico che, quale popolo eletto, ha avuto il "privilegio" della rivelazione. La religione ha esercitato un ruolo fondamentale nel processo di civilizzazione, poichè gli uomini, per paura di offendere la divinità, cominciarono ad esercitare un controllo sugli istinti e sulle passioni.
La religione ha indotto gli uomini a contenere la loro "libidine bestiale," gli uomini timorosi di esercitare la loro libidine in faccia al Cielo di cui avevano uno spavento grandissimo, cominciarono a strascinare per sè la donna dentro le loro grotte e a tenerla con sè, ad usare la Venere umana, nascostamente, cioè con pudicizia Sorse, in tal modo, il sentimento del pudore ed il vincolo dei matrimoni sono carnali congiungimenti pudichi fatti con timore di qualche divinità. Vico osserva che, presso tutti i popoli, i matrimoni sono celebrati religiosamente e, grazie a tali unioni, i genitori hanno cura dei figli e sono evitati i rapporti incestuosi dei padri con le figlie, unioni che tutte le nazioni naturalmente abborriscono. Inoltre, grazie alla religione, sorse la convinzione che esiste un' anima che non muore con i corpi e che continua a vagare inquieta se i corpi restano insepolti; venne, pertanto abbandonato il "bestiale costume" di lasciare insepolti i cadaveri.
Religione, matrimoni e sepolture solenni dei defunti sono Principi universali che tutte le Nazioni così barbare che umane custodiscono; si tratta di idee comuni a tutti i popoli; esse hanno dato inizio al vivere civile e si devono "santissimamente custodire"; secondo Vico, tali principi, eterni e universali, costituiscono un freno alle violente passioni che agitano gli esseri umani e costituiscono il fondamento della moralità.
Foscolo nei "Sepolcri" ha fatto propria la visione del Vico, sottolineando come, il passaggio dalla condizione primitiva allavita civile, siastato possibile quando gli uomini hanno onorato i defunti, istituito la famiglia, la religione e la giustizia:
" Dal dì che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di sè stesse e d' altrui, toglieno i vivi
all' etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci alterne a sensi altri destina.
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
ed are a' figli"
(U. Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 91/98)
Il rito della sepoltura ha dato origine alla convizione che l' anima sopravviva al corpo ed abbia un' esistenza ultraterrena; le più belle immagini poetiche relative a tale certezza possiamo individuarle, nei "Libro dei morti" e nelle "laminette orfiche" ritrovate dentro ai sepolcri della Magna Grecia, di Creta e della Tessaglia, su di esse sono scritte le istruzioni che dovevano guidare, nel suo cammino, l'anima iniziata ad una dottrina misterica. Le laminette , secondo gli studiosi, costituiscono un documento dell' orfismo ed esprimono la speranza di ottenere, grazie all'iniziazione, la salvezza da altre reincarnazioni e di conseguire uno stato di perenne beatitudine.
Si trascrive la laminetta orfica ritrovata del 1969 nella necropoli di Hipponion, in una tomba, databile alla fine del V sec. o all' inizio del IV; ed ora custodita nel Museo di Vibo Valentia. (18)
"A Mnemosyne è sacro questo dettato per il mystes,
quando sia sul punto di morire.
Andrai alle case ben costruite di Ade: v' è sulla destra una fonte,
accanto ad essa si erge un bianco cipresso;
lì discendono le anime dei morti per aver refrigerio,
A questa fonte non accostarti neppure;
ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi,
ed essi ti chiederanno, in sicuro discernimento,
perchè mai esplori la tenebra dell' Ade caliginoso.
Dì: "Son figlio della Greve e del Cielo stellato;
di sete son arso e vengo meno: ma datemi presto
da bere fredda acqua che viene dal lago di Mnemosyne."
Ed essi son misericordiosi per volere del re degli Inferi,
e ti daranno da bere l' acqua del lago di Mnemosyne;
e tu quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui anche gli altri
Mystai e bacchoi procedono gloriosi"
.
La fonte dell' oblio è posta alla destra delle case di Ade, poichè al mystes, nelle lamine, è sempre prescritto di andare verso destra. Nel terzo verso si dice che accanto alla fonte si erge il "bianco cipresso:" secondo alcuni interpreti il cipresso è una pianta collegata con il culto degli dei inferi; secondo alcuni miti il cipresso bianco è nato sulla riva del fiume Acheronte. Le anime cercano refrigerio, ciò si può intendere nel senso che l' acqua è datrice di vita e le anime sono tentate a bere l'acqua della fonte nell' illusione di tornare in vita; l' iniziato è esortato a non bere perchè, in tal caso, sarebbe costretto ad una nuova forma di esistenza; il mystes deve bere la fredda acqua che viene dal lago di Mnemosyne, poichè non gli darà un vigore fittizio che lo porterà ad una nuova esistenza temporale, ma lo avvierà alla vita spirituale. Anche un autore moderno, Leopardi, nelle "Operette morali" ha immaginato la possibilità di un avvincente incontro tra i vivi e coloro che non esistono più in questo mondo. Leopardi immagina che, dopo migliaia d' anni, quando si compie "l'anno grande e matematico," i morti tornino sulla terra per una notte e cantino in coro un inno alla vita "cosa arcana e stupenda:" Il loro canto struggente esprime la condizione dolorosa di "ogni creata cosa" destinata a morire: la vita e la morte sono accomunate dal dolore e da un mistero inestricabile. Secondo Vico, la coscienza morale fu risvegliata dalla religione che cominciò con il timore suscitato dai fulmini ; gli uomini immaginarono che Giove poteva punirli, sorge, in tal modo la volontà di tenere a freno le loro smodate passioni. In tal modo è sorta la libertà, intesa come capacità dominare le passioni, ed insieme ad essa è nata la moralità: "In cotal guisa la Pietà e la Religione fecero i primi uomini naturalmente prudenti che si consigliavano con gli auspici di Giove; giusti della prima giustizia verso Giove. e inverso gli uomini" (19).
"IL POTERE CREATORE DELLA FANTASIA"
Vico sottolinea la forza creativa della fantasia che vivifica le cose inanimate , dà espressione alle passioni che travagliano l' animo umano ed è tanto più potente, quanto è più debole il raziocinio; la "sapienza poetica" è autonoma rispetto al ragionamento e costituisce "la verità" per gli uomini agli albori della storia: " . Poesia e mito esprimono la "visione del mondo" tipica dell' umanità fanciulla ed hanno un proprio contenuto di verità.
La poesia crea quelli che Vico chiama, "universali fantastici," cioè "immagini poetiche" che assommano tutti gli attributi che possono essere riferiti a quell' immagine: così Giove riunisce tutti gli attributi della divinità; Achille è "l'universale fantastico" del guerriero forte e coraggioso; Ulisse è "l'universale fantastico" dell' uomo astuto; gli universali fantastici, quindi, costituiscono "' immagini" (o meglio categorie) che l' uomo crea quando non è ancora capace di astrazione: "I primi uomini come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formare i generi intellegibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti; per la quale simiglianza, le antiche favole non potevano fingersi che con decoro." I miti, per esprimere concetti universali, non usano idee universali che sono prodotte dalla ragione, ma "immagini" create dalla fantasia .
La "sapienza poetica" fu la prima sapienza della gentilità e la poesia fu una facoltà connaturale ai primi uomini che erano privi di razionicio, ma avevanoi "robusti sensi" e "vigorosissime fantasie" nate dall' ignoranza delle cause dei fenomeni naturali e dell' agire umano. La poesia incominciò come "poesia divina" poichè gli dei erano considerati cause di tutti quei fenomeni che gli uomini "sentivano ed ammiravano." Vico cita quale esempio ciò che dice Tacito nella sua opera "germanica" circa le credenze dei popoli germanici che affermavano d'udire di notte il Sole, che dall' occidente passava, per mare, all' oriente; ed affermavano di vedere gli Dei. Analogamente, i primi uomini delle nazioni Gentili, "come fanciulli del nascente genere umano" creavano le cose grazie alla loro fantasia .
IL LINGUAGGIO
Il linguaggio, secondo Vico, si è formato lentamente: gli uomini, dapprima, comunicarono con atti muti, cioè per cenni, quindi con oggetti con i quali esprimevano le idee; quindi vennero emessi suoni informi, cantando in tal modo, si abituò a pronunziare la lingua; infine, vennero formate le parole che provenivano dal linguaggio primitivo fatto per cenni o per simboli, le lingue devono aver incominciato da voci monosillabiche. Quando i poeti si finsero il carattere divino di Giove, che fu il primo di tutti i pensieri umani della Gentilità, cominciò a formarsi la lingua articolata con l'onomatopea, si formò in tal modo la lingua poetica; solo, successivamente, sorsero i linguaggi volgari. L'origine della lingua e della scrittura, quindi, deve essere individuata nella poesia: i primi popoli, i quali furono i fanciulli del Genere Umano, fondarono il Mondo dell' Arti, poi i Filosofi fondarono il mondo delle Scienze. La poesia, pertanto, come già osservato, ha un valore autonomo ed è indipendente da ogni linguaggio logico, essa esprime il mondo di sentire dell' uomo prima dello sviluppo di un linguaggio scientifico prodotto da una ricerca a livello intellettuale; la poesia non è "sapienza riposta", non contiene, cioè, verità nascoste, ma costitusce un modo tipico di comprendere la verità: cerca di intendere la natura dando vita alle cose inanimate, e cerca di capire il trascendente facendo riferimento a prodigi e incantesimi.
Il linguaggio, secondo Vico, non può essere considerato come una creazione convenzionale, ma ha carattere "naturale;" la molteplicità delle lingue volgari dipende dalla diversità dei climi che hanno dato origine a "costumi diversi": "certamente i popoli per la diversità dei climi hanno sortito varie, diverse nature, onde sono usati tanti costumi diversi; così dalle loro diverse nature, e costumi sono nate altrettante diverse lingue.”
Per quanto riguarda le indagini relative all'origine del linguaggio, alcune intuizioni di Vico furono riprese nel corso del XIX e del XX secolo; Rousseau nell' "Essai sur l' origine des langues" sostiene che il canto fu la prima forma espressiva, solo successivamente venne elaborato il linguaggio che costituisce la distinzione tra animali e uomo.
La Linguistica moderna -detta anche Glottologia, "scienza della lingua"- nasce tra fine XVIII e XIX sec. intesa come scienza autonoma; anche se l'interesse dell'uomo per la lingua, cioé per il suo mezzo più spontaneo e naturale di comunicazione, è antichissimo; la nascita di tale disciplina è un stato favorito: in primo luogo, dalla scoperta del Sanscrito, cioé della lingua classica dell'India; in secondo luogo dal vivo interesse del Romanticismo per le "origini" del pensiero, delle istituzioni e della lingua.
Pertanto, gli studiosi lessero in lingua originale le opere dei filosofi indiani e poi scoprirono delle affinità grammaticali del sanscrito con le due lingue classiche dell'Europa, il latino e il greco. Attraverso la comparazione si mise in luce che esse rispecchiavano un originario modello grammaticale, rispetto al quale le tre lingue avevano subito un'evoluzione fonetica regolare e possedevano un cospicuo patrimonio lessicale comune. Da queste basi si sviluppa la Linguistica come grammatica comparata: si aprono gli studi con confronti in tutte le lingue europee ed asiatiche, si giunge alla definizione di ceppo indoeuropeo e di lingua indoeuropea, comprendende il sanscrito, le lingue latino e neolatine, il greco, le lingue germaniche, slave, celtiche, baltiche.
Questa prima fase detta "glottologia comparativa" è seguita da altri due filoni di studio: la glottologia storica e la glottologia strutturale, quest'ultima ha il suo "padre fondatore" in Ferdinand de Saussure. Innanzitutto, la glottologia storica si è occupata dell'evoluzione fonetica, morfologica, lessicale delle lingue, studiando in particolare il rapporto tra le lingue storiche e la "lingua madre", cioé l'indoeuropeo. Poi la linguistica strutturale, a partire dal primo Novecento, si è occupata della struttura della lingua in generale. Il problema dell'origine del linguaggio non rientra nel campo della Linguistica, in quanto tale scienza si sofferma sulla struttura della lingua. Secondo de Saussure, per analizzare l'attività linguistica dei parlanti si possono utilizzare tre termini: langage, langue, parole. Langage indica astrattamente la facoltà di parlare, comune a tutti gli uomini, è la potenzialità del parlare. Per langue si intende l'aspetto sociale dell'attività linguistica di una comunità di parlanti, cioé di un insieme di individui, per cui la langue è l'insieme delle abitudini linguistiche, il codice che un insieme di parlanti condivide e con cui comunica. La "parole" è invece il singolo elemento o atto linguistico, è il tradursi concreto della "langue".
Inoltre, de Saussure definisce il concetto di "segno linguistico", che è una unità del linguaggio umano e corrisponde a quello che non chiamiamo "parola", che è costituito da due elementi, vale a dire il concetto e l'immagine acustica dei suoni, questi due elementi componendosi nella mente umana permettono la comprensione reciproca tra i parlanti. il linguaggio, quindi, è un codice, e come tale è arbitrario, è una creazione dei parlanti. Gli studi moderni, pertanto, hanno definito gli elementi fondativi del linguaggio, validi per ogni lingua conosciuta, parlata o meno, fermo restando la possibilità di scoprire in futuro una lingua che sfugga a tali regole. Non solo, gli studi comparativi e storici hanno evidenziato l'esistenza di "lingue madri" antichissime, da cui derivano -attraverso un lungo processo evolutivo- le lingue odierne, definendo le caratteristiche morfo-sintattiche, fonologiche, lessicali di tali lingue madri, tra cui in particolare l'indoeuropeo.
Rimane un campo ancora aperto quello relativo all'origine del linguaggio umano: il problema fondamentale è la mancanza di testimonianze di tali origini, in quanto la scienza si può basare solo sui documenti scritti quali prime testimonianze antiche del linguaggio umano, mancano del tutto le fonti relativi ai lontani tempi della preistoria; qualche ipotesi è stata formulata, basandosi sui dati dell'antropologia preistorica: Possiamo, al riguardo, distinguere diverse -se non spesso antitetiche- scuole di pensiero negli studi moderni:
1. ipotesi evolutiva, formulata da Darwin, secondo il quale si passa dal linguaggio gestuale dei più antichi ominidi al linguaggio negli stadi più avanzati:
2. ipotesi dell'innatismo, formulata da Chomsky, secondo il quale il bambino possiede una capacità innata di apprendere la lingua madre, in quanto possiede una "dotazione biologica" innata capace di elaborare all'infinito simboli astratti. Tale capacità sarebbe comparsa attraverso una mutazione genetica unica nell'essere umano;
3. ipotesi del protolinguaggio, elaborata da Bickerton: si partirebbe da un protolinguaggio, privo di grammatica, telegrafico, basato sui gesti, utilizzato dagli ominidi. Il salto sarebbe avvenuto in concomitanza con la comparsa dell'Homo Sapiens, nel quale una mutazione avrebbe riorganizzato il cervello, con una nuova configurazione vocale e la capacità di strutturare i suoni in sintassi.
Negli ultimi anni, infine, sono stae proposte variazioni alle ipotesi sopracitate, sottolineando ad esempio l'origine sociale del linguaggio, oppure mettendo in evidenza la lenta evoluzione del linguaggio stesso (teoria della continuità e teoria incrementalista), per cui da singoli segni combinati tra loro si passa a una fase di convenzionalizzazione e di strutturalizzazione delle frasi: dal gesto, al singolo suono, alla singola parola, infine alle frasi e ai discorsi.
Certamente, le teorie espresse da Vico, pur in assenza dei dati forniti dall'odierna scienza antropologica-preistorica, presentano in nuce gli elementi fondamentali su cui si intrecciano le teorie contemporanee: dal gesto al discorso compiuto per sintassi e senso logico.
Basi evolutive fisiche sono all'origine forse dello sviluppo di un linguaggio articolato, con suoni complessi e variati, tuttavia la data di nascita della prima parola, della prima frase pronunciata dai nostri antenati rimane per ora un mistero.
"LA SCOPERTA DEL VERO OMERO"
Il problema della genesi e della trasmissione di due "monumenti letterari" come l'Iliade e l'Odissea costituisce l'oggetto di ciò che si è sempre chiamato "questione omerica", argomento a cui Vico ha dato il suo contributo. Analizziamo in primis gli estremi della vexata questio. Già per gli antichi la personalità di Omero non ha contorni ben definiti: ben sette città si contendevano l'onore di aver dato i natali al poeta, tra cui Smirne, Colofone, Chio e Rodi; dubbio rimane anche il suo vero nome in quanto "Omero" in greco significa "colui che non vede" e potrebbe essere un nome acquisito in onore alla tradizione che voleva poeti e rapsodi cechi per esaltare la profondità interiore del cantore-veggente, oppure potrebbe derivare dal termine "ostaggio" e fare riferimento a una condizione di prigionia. Del resto la redazione scritta dei due poemi venne predisposta -secondo le fonti antiche (Cicerone)- nel VI sec. a.C. ad Atene per volontà di Pisistrato, facendoli ricomporre in unità da una commissione di esperti.
L'approccio scientifico al problema si deve alla scuola alessandrina (III-II sec. a.C.), dove si affermano due scuole: i "separatisti", che ritengono i due poemi opera di due autori differenti e gli "unitari", guidati da Aristarco di Samo, che ritengono unico l'autore. Proprio gli alessandrini curarono l'edizione definitiva dei due poemi che è giunta a noi tramite i manoscritti bizantini. Inoltre, l'autore anomino detto PseudoLongino del trattato "Il sublime" (databile circa nel I sec. d.C, età augustea) afferma che unico è l'autore, Omero, e che le differenze tra i due poemi si spiegano in ragione del fatto che l'Iliade è un poema composto in età giovanile, mentre l'Odissea venne composta da Omero in vecchiaia e, quindi, riflette una visione del mondo più saggia e matura.
Nel Medioevo, nell' Europa Occidentale si perse la conoscenza diretta dei due poemi fino al '300, quando, per volontà del Petrarca e del Boccaccio, venne fatta una traduzione in latino dall'esule greco Leonzio Pilato; in seguito si diffusero anche le redazioni originali in greco, grazie all'afflusso in Occidente, di dotti provenienti dalle regioni orientali bizantine che diffusero la conoscenza del greco. Nella Firenze umanistica si ebbe la prima edizione a stampa delle opere omeriche nel 1488, a cui si aggiunge la redazione ginevrina del 1566 e le edizioni settecentesche di Cambridge (1711) e di Lipsia (1802, Università di Gottinga).
Nell'età moderna la questione omerica viene affrontata a partire dal '700, nell'opera del francese François D'Aubugnac e dell'italiano Vico. Il D'Aubignac si inserisce nella Querelle des anciens et des modernes, la questione circa la presunta superiorità degli antichi sui moderni o viceversa, che si era aperta nel Rinascimento (con l'affermazione della superiorità degli antichi sui moderni) e nel Barocco (con l'affermazione della superiorità dei moderni sugli antichi). Per il D'Aubignac, Omero non esiste e i poemi sono il frutto di un grossolano "rattoppatore" dei canti anonimi; invece Vico, afferma, anch' egli, che Omero non esiste, ma attribuisce rilevante importanza poetica ai due poemi, da lui considerati come "opera collettiva" del genio greco nella "età degli eroi." Secondo Vico, Omero non è un personaggio storico, ma un "simbolo" che raccoglie i canti degli aedi; i due poemi costituiscono un' opera corale di tutto il popolo greco; in particolare Vico ritiene che l' Iliade sia di molto anteriore all' Odissea, infatti nell' Iliade prevale "la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l' atrocità," mentre nell' Odissea i costumi sono mutati: sono apprezzati "i lussi di Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de' Proci" (Vico, 1744, libro III) tutti segni di una diversa mentalità e di una diversa epoca storica. Vico attribuisce all'opera di Omero validità artistica, in quanto espressione di quei sensi "perturbati e commossi" e di quella "fantasia" che rappresentano gli elementi costitutivi e specifici dell'arte e che gli uomini, della "età Eroica," possedevano compiutamente.
Del resto, Vico può essere considerato un pre-romantico proprio per la sua visione della poesia, dal momento che considera la "poesia" come manifestazione popolare, anticipando la ricerca dei canti degli antichi aedi, che contraddistingue il Romanticismo e l' attenzione per la poesia popolare in cui rientrano anche le fiabe, che in epoca romantica vengono raccolte dalla tradizione orale dai fratelli Grimm in Germania. In ogni caso gli studi di Vico rimangono ignorati dai contemporanei.
L'avvio scientifico alla questione si deve al filologo tedesco Federico Wolf, il quale - nei Prolegomena ad Homerum del 1795 - sostiene che Omero debba essere collocato all'inizio di una lunga tradizione epica orale, che sarà poi trascritta più tardi nel VI sec. a.C. All’ inizio dell’ Ottocento, Karl Lachmann formula la teoria dei "piccoli canti", secondo tale ipotesi, in origine nascono canti sparsi che confluiscono poi nel grande poema. Viene così formulata la teoria degli "analisti", in base alla quale i poemi omerici nascono in periodi diversi e vengono poi "assemblati" insieme. Questa teoria è in linea con il concetto romantico di "poesia popolare", perché se la poesia è espressione dell'anima collettiva di un popolo, diventa logico pensare all'epica omerica in termini di poligenesi, di origine molteplice, come altri poemi epici e saghe popolari quali il Kalevala finlandese (poema nazionale dei Finni, derivante dalla messa insieme di canti antichi di carattere avventuroso, fiabesco fatta nel 1849 da Lonnrot), la Canzone dei Nibelunghi germanica (opera anonima databile intorno al '200 e derivante da miti, leggende, fatti storici risalenti alle migrazioni dei popoli germanici nel V sec. d. C.), le Chanson de geste (canti popolari francesi di età medioevale, anonimi).
Per quanto concerne "l'omeristica" più recente, è necessario identificare tre filoni di studio: quello basato sulle scoperte archeologiche, quello fondato sulle ricerche relative alla poesia orale e, infine, quello del neo-unitarismo che si è affermato negli ultimi decenni. Il filone archeologico inizia con le scoperte di Schliemann a fine Ottocento che riportano in luce i resti dell'antica Troia sulla collina di Hissarlik (anche se si è accertato oggi che gli strati scoperti da Schliemann sono più recenti e non collocabili alla Troia di epoca micenea omerica). Tali scoperte portarono in luce la storicità degli eventi narrati nei poemi omerici. Inoltre, agli inizi del Novecento, Ventris decifra la lineare B micenea e si apre la strada per identificare delle basi linguistiche, lessicali e culturali micenee all'interno dei poemi omerici. Il filone orale, si apre con gli studi condotti da Parry (studi risalenti al 1928 e diffusi più tardi dopo la seconda guerra mondiale); il punto di partenza è il concetto di "lingua artificiale" elaborato da alcuni grammatici e filologi con riferimento alla dizione epica; applicando tale concetto ai poemi omerici, Parry identifica prima la "formularità", poi "l'oralità", per cui i poemi omerici si basano su formule fisse, epiteti ricorrenti, espressioni tipo o situazioni stereotipate (ad esempio, la partenza dell'eroe, la vestizione del guerriero) che compaiono con versi identici e con schema metrico costante. quindi, i poemi omerici sono per Parry "poesia orale" intendendo con tale espressione non solo la "trasmissione" e la "diffusione", ma anche la "composizione" orale del testo. Si definiscono così sia la genesi, sia il carattere, sia la trasmissione dei testi; le scoperte di Parry permettono di distaccare dal periodo arcaico un'età prearcaica -con valenze culturali e sociali proprie - incentrata sull'epica orale, dove l'oralità è sia nella composizione, sia nella trasmissione, mentre la trasmissione diventa scritta solo in epoca arcaica e poi classica-ellenistica.
Attualmente si studiano le "fonti" dei poemi epici e il conseguente riuso omerico di motivi, schemi narrativi provenienti da uno o più modelli preesistenti; pertanto si indaga cosa c'era prima dell'Iliade e dell'Odissea. per capire come sono nati questi due poemi e per interpretarli.
Alla luce dei numerosi studi moderni emerge comunque la straordinaria modernità dell'intuizione vichiana: anche se il filosofo nega l'esistenza di un singolo poeta "creatore" o "rielaboratore", egli pone l'accento sulla straordinaria ricchezza culturale e poetica dei due testi intesi come una immensa "opera collettiva" del popolo greco. Gli studi sull'oralità e gli studi linguistici attestano che proprio nei due poemi omerici confluisce la complessa tradizione greca di canti magici, preghiere, mitologia divina e mitologia eroica, il tutto inserito in una traccia storica reale che le scoperte archeologiche hanno portato alla luce. L' Iliade e l' Odissea, quindi, sono, veramente, il patrimonio storico-culturale e magico-sacrale di tutto un popolo - compreso quello miceneo - che è racchiuso in questi due autentici capolavori.
CONCLUSIONE
Vico, persuaso che "gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso," considera la poesia l'espressione "più adeguata" di un animo "perturbato e commosso" essa si esprime con immagini fantastiche e "forme alogiche" e, pertanto,consente di comprendere il mondo tipico dell' età eroica, quando gli uomini erano mossi da passioni violente come attesta Achille che, per una privata offesa di Agamennone, abbandona i combattimenti e tornerà a combattere per soddisfare un suo privato dolore d' aver Paride ucciso il suo Patroclo. La poesia, non solo ha valore autonomo, ma è "creazione sublime" e costituisce la prima forma di linguaggio. Il prevalere della ragione è causa del decadimento della poesia, infatti quanto più gli uomini sono capaci di raziocinio, tanto più "si spegne" la poesia; ciò si verifica a livello individuale e nella storia dell' umanità "Dante che ha creato la più grande poesia appartiene anch'egli a un' epoca di barbarie e precisamente di barbarie ritornata, quale è stato il Medioevo" (19) . Inoltre attraverso la "sapienza poetica" gli uomini, sia pure oscuramente hanno intuito "il Sacro;" solo, successivamente, con la riflessione filosofica, gli uomini sono stati in grado di elaborare indagini a livello razionale; comunque la filosofia non potrà sostiture totalmente la religione, poichè le religioni "sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose per sensi, i quali efficacemente movono gli uomini a operare".
Secondo Vico, la storia non è dominata dal caso o dal destino, ma è opera dell' uomo, sono gli uomini che hanno costruito "Il mondo delle Nazioni"; Vico esemplifica in molteplici modi tale concetto: gli uomini primitivi portavano le femmine nelle grotte per sfogare la loro libidine, ma in tal modo si costituirono le prime famiglie e i matrimoni; per difendere se stessi e le loro famiglie crearono delle fortificazioni. ma così si pose fine alla vita nomade e appresero a coltivare i campi; l'agire umano non è determinato da un piano provvidenziale: l' uomo è libero nelle sue scelte e, quindi, ne è responsabile.
NOTE
- Croce, La filosofia di G. Vico, Laterza, p. 259;
- Croce, ib. p. 255;
- Croce ib. p. 256;
- G. Vico, La Scienza Nuova, Bompiani, 2012, p.903;
- Platone, Crizia, in Opere, vol. Il Laterza, 1966, 109 b-c;
- Platone, Politico, in Opere, vol I, Laterza, 1966;
- Platone, Repubblica, in Opere, Vol II, 617-618 Laterza, 2066;
- G. Vico, op.cit. p. 269;
- G. Vico, op.cit. p. 869;
- Croce, op.cit., p. 57;
- Croce, op.cit., p. 65;
- G. Vico, op.cit., p.911;
- G. Vico, op.cit., p. 916;
- G, Vico, op.cit., p.919;
- G, Vico, op.cit., p. 919;
- G. Vico, op.cit., p. 785;
- G.Vico, op.cit., Degnità XIII, p.861;
- Caratelli, Le laminette orfiche, Adelphi;
- G. Vico, op.cit., p.991;
- Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. II UTET, 1963, p. 320.
BIBLIOGRAFIA.
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G.Vico, La Scienza Nuova – le tre edizioni del 1725, 1730, 1714; Bompiani, 2012;
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Von Franz Marie-Louise, Il femminile nella fiaba, Bollati Boringhieri 2009;